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domenica 31 luglio 2016

322) ANCHE GLI ITALIANI SFRUTTATI DAL CAPORALATO


Italiani schiavi nei campi per tre euro l’ora

Lug 29, 2016 Giovanni Masini


 “Il caporalato è andare dalle persone che stanno morendo e farle finire di morire”. La frase, lapidaria, è di un proprietario terriero della provincia barese, che intercettiamo alle cinque del mattino mentre assiste all’inizio dell’acinellatura: la difficile operazione di pulitura dei grappoli di uva da tavola, da preparare verso fine luglio in vista della raccolta di settembre. Gli acini più piccoli impediscono agli acini più grandi di crescere al meglio e vanno rimossi uno per uno.
Questo lavoro viene tradizionalmente svolto da braccianti chiamati a giornata, non di rado giovani sui vent’anni che cercano di guadagnare qualche soldo “facendo l’acinino”. Pulire i grappoli sembra un compito semplice, ma può rivelarsi massacrante. Trascorrere fino a dieci ore sotto il tendone di plastica che serve a proteggere l’uva contro la pioggia con temperature che superano i quaranta gradi, le braccia sempre sollevate e il caporale che incalza chi lavora meno velocemente, non è un lavoro da signorine.

 

Eppure, negli ultimi anni, sono sempre di più le donne che vanno a giornata a lavorare in campagna. Non più giovani che vogliono pagarsi gli studi o magari la vacanza, ma madri di famiglia che accettano di lavorare anche per venti euro al giorno pur di sfamare la propria prole. Alle quattro del mattino si mettono in viaggio dalle province meno ricche della Puglia, Brindisi e Taranto. Sui pullman viaggiano per ore fino alla zona compresa fra Bari, Andria e Foggia, dove c’è più richiesta di manodopera.
Il sindacato stima che ogni notte si mettano in movimento fra trentamila e quarantamila donne, per la stragrande maggioranza italiane. A volte si portano dietro anche il marito, il fratello, i figli. La miseria costringe ad accettare ogni tipo di ricatto.
Anche la truffa dei fogli di ingaggio, che consente a molti datori di lavoro di conferire una patina di legalità – anche se solamente formale – al lavoro dei braccianti alle loro dipendenze.
Il meccanismo è semplice: i braccianti vengono assunti per quindici giorni con il sistema del part-time orizzontale e (sotto)pagati per un mese. Così facendo l’azienda risulta sempre in regola con le uscite, i contributi previdenziali e tutte le norme sul lavoro: se mai dovesse arrivare un’ispezione, si fa sempre in tempo a dire che il bracciante ha iniziato a lavorare da due ore, quando invece sta raccogliendo uva dalle cinque del mattino.
Come se questo non bastasse, molto spesso i fogli di ingaggio vengono intestati ad amici o parenti dei proprietari terrieri, che così, se non si superano le 51 giornate di lavoro in un anno, possono godere dell’assegno di disoccupazione.
Ma le truffe a danni dello Stato si sommano a quelle, se possibili ancora più gravi, commesse alle spalle dei braccianti diseredati. Dalle tabelle salariali emerge che la paga giornaliera di un operaio di “secondo livello” (fra cui quelli, ad esempio, addetti all’acinellatura) non dovrebbe essere inferiore, al lordo, a 47 euro. Una paga quasi doppia al salario medio di un operaio irregolare.
Nemmeno gli orari vengono rispettati: da contratto la giornata dovrebbe durare sei ore e mezza più due di straordinario, ma nella realtà questo tempo può quasi raddoppiare. Non è raro che le donne lavorino dalle sei del mattino alle sei di sera.
Alla paga lorda, come succede per gli africani, dev’essere sottratto il costo del trasporto sul posto di lavoro (che, se superiore a un’ora e mezza, competerebbe contrattualmente all’azienda).
Per quanto questo fenomeno sia sulla bocca di tutti, trovare qualcuno disposto a parlarne è ancora più difficile che nel ghetto di Rignano Garganico. La manodopera non manca e chi “parla” rischia di trovarsi senza lavoro da un giorno all’altro.
Ogni tanto la questione torna alla ribalta delle cronache, soprattutto quando, tre o quattro volte all’anno, qualche bracciante muore sul posto di lavoro.
È il caso della bracciante quarantanovenne Paola Clemente, morta nel luglio 2015 mentre lavorava nelle vigne della campagna di Andria. Un malore provocato dai quarantadue gradi all’ombra e, quasi certamente, dal lavoro estenuante. Il suo stipendio era di appena 27 euro al giorno.
Nel processo ancora in corso, per cui, nonostante i tanti mesi trascorsi, non ci sono ancora stati rinvii a giudizio, è indagato fra gli altri Ciro Grassi, l’autista del bus che aveva condotto la Clemente fino nei campi, dal paese del Tarantino di cui era originaria.
Ciro Grassi è anche il nome che leggiamo sulla fiancata di un bus parcheggiato, fin dalle cinque del mattino, sul bordo di una vigna delle campagne baresi. Una coincidenza?
Certo Grassi è solamente indagato e quindi innocente fino a prova contraria, ma resta comunque paradossale che la normativa non ne abbia sospeso l’attività per cui pure si è dichiarato innocente.

(Ha collaborato Roberto Di Matteo)

lunedì 18 luglio 2016

321) DALLA FRANCIA ALLA TURCHIA L’ISLAM COLPISCE



SE IL FONDAMENTALISMO ISLAMICO CERCASSE LA VITTORIA SOLTANTO NEI PAESI MUSSULMANI POCO IMPORTEREBBE, IL GUAIO È CHE CERCA DI PENETRARE ANCHE IN OCCIDENTE.


C’è stata ancora una mattanza islamica in Francia, la terza in diciotto mesi, questa volta è stata duramente colpita la città di Nizza. Questi sono i risultati di un buonismo senza limiti nelle politiche migratorie che ha stravolto l’identità nazionale francese. Le nazioni europee maggiormente colpite dal terrorismo islamico hanno tutte le stesse caratteristiche della Francia: hanno rinunciato alla tutela delle loro culture, delle loro tradizioni in nome di un mito multiculturale. Noi fortunatamente non siamo ancora ai livelli della Francia, della Gran Bretagna, del Belgio, dell’Olanda, della Germania: facciamo ancora in tempo a fermare l’inarrestabile ascesa della furia islamica che cerca in tutti i modi di sottometterci, distruggendo la nostra cultura, che si basa sul cristianesimo, e i nostri modi di fare, di pensare. Quasi nessuno tra coloro che si proclamano imani in Italia ha condannato l’eccidio di Nizza. Alcuni giornalisti propongono la totale espulsione dell’Islam in Italia se le alte cariche musulmane non collaborano alla prevenzione delle violenze, segnalando i predicatori dell’odio: a mali estremi, estremi rimedi. I problemi del mondo islamico non dovrebbero minimamente interessarci, purtroppo ce li ritroviamo in casa nostra.



Magari riuscissimo ad intravederli solamente in finestra, come avviene nei paesi dell’Estremo Oriente: solo un po’ la Cina è alle prese con una piccola minoranza islamica nel suo vastissimo e popolatissimo territorio, mentre le Coree, Il Giappone, il Vietnam non sono sfiorati minimamente dalle violenze islamiste, perché tengono le porte chiuse all’immigrazione. Anche nell’ex oasi laica turca l’integralismo religioso avanza sempre di più; quella Turchia, cui l’Europa lecca i piedi a suon di miliardi, ricatta il Vecchio Continente con la bomba immigrazione: basterebbe posizionare una flotta navale lungo le coste delle isole greche, che non sono molto lontane da quelle turche, per fermare quell’esodo ed evitare di pagare. Il recente tentativo di colpo di stato che c’è stato in Turchia, a prescindere che sia vero o no, ha prodotto violente repressioni. I nostri governanti rappresentano lo specchio della nostra società: sensibile, debole, paurosa, delicata, che preferisce patteggiare con i tagliagole piuttosto che osteggiarli. Ci sarebbe bisogno di un Putin italiano.

sabato 9 luglio 2016

320) LACRIME VERE E DA SCENA



I CALCIATORI DELLA NAZIONALE HANNO PIANTO PER DELLE SCIOCCHEZZE E OVVIAMENTE PER FAR SCENA, COME GLI ATTORI, MENTRE C’ERANO COLORO CHE PIANGEVANO PER I LORO CARI ASSASSINATI IN BANGLADESH.


Ormai oggi è diventata una moda: quando i calciatori professionisti strapagati perdono una partita importantissima iniziano a piangere a dirotto. È esattamente quello che è accaduto con l’eliminazione della nazionale di calcio italiana dall’ultimo Campionato Europeo per Nazioni. Anni addietro tutti prendevano in giro Diego Armando Maradona che piangeva quando perdeva, ma ai tempi in cui giocava a calcio per uno sportivo era raro piangere per una sconfitta, e gli dicevano: “grande e grosso, piange come un bambino!” Oggi invece tutti sono contenti vedere i calciatori italiani piangere per la nazionale: è considerato un segno di vero attaccamento alla casacca che indossano. Per chi è abituato a vincere facile (almeno in Italia), come gli juventini, di cui la nazionale è zeppa, è durissima accettare una sconfitta. Saranno anche l’eccessiva eccitazione, l’enfasi, la concentrazione, la tensione per l’alta posta in palio, sotto la visione di milioni e milioni di persone, la paura di fare errori grossolani, la miscela di sostanze farmaceutiche consentite di ingerire, che porteranno a sfogare la delusione nei dopogara. Inoltre si farà un po’ di scena, per far vedere alle masse che si tiene veramente a quella competizione. La gente abbocca, sono pochi quelli che vedono al di là del naso.

Per fare un paragone stupido è un po’ quello che accade nel mondo teatrale professionistico e dello televisione; tutti, dopo uno recitazione, dopo una proiezione, esclamano: “che bravi interpreti, che storie commuoventi!” Raramente si va ad indagare su quello che c’è dietro le quinte: non ci si pongono quesiti sugli sceneggiatori che vogliono dare lezioni morali e sugli attori che recitano i buoni, domandandosi se effettivamente nella vita reale si comportano come nella finzione; o ancora: non vengono dei dubbi se nel mondo dello spettacolo le donne non molto brave ma dai facili costumi. Il paragone regge a pennello tra i calciatori e gli attori, perché entrambe le categorie sono in mano agli impresari, agli agenti, ai procuratori, dentro ci sono dei retroscena e degli impicci che nessuno saprà mai e perché anche i primi spesso recitano: oltre che per i motivi accennati pocanzi, anche per le sceneggiate che effettuano in campo, come ad esempio accentuando una caduta o il dolore per un fallo subìto. 

  
Nell’ultima gara della nazionale italiana i giocatori avrebbero potuto tenere un atteggiamento più dignitoso, considerando l’ennesimo eccidio di matrice islamica avvenuto in Bangladesh, che questa volta ha colpito particolarmente l’Italia. Gli italiani hanno giocato con il lutto al braccio dopo aver effettuato un minuto di raccoglimento, successivamente hanno dimenticato i loro connazionali uccisi e le loro famiglie duramente segnate, che versavano vere giustificate lacrime di dolore. Per una forma di rispetto verso i morti, la compagine italiana avrebbe potuto concedere le interviste ai giornalisti il giorno seguente alla sconfitta, una volta smaltita la tensione della partita, tenendo un atteggiamento più dignitoso, evitando pianti, comportandosi da veri uomini, non da bambini viziati abituati ad avere tutto. Potranno aver perduto una partita, non i loro miliardi. È soprattutto nei momenti tragici come questi che dovremo ricordarci di essere italiani, tirando fuori i tricolori. Dovremmo esporli pure negli anniversari della nostra storia gloriosa, non possiamo sentirci italiani principalmente per il pallone.

venerdì 1 luglio 2016

319) ADDIO BUD SPENCER



Quel gigante buono che fece ridere l'Italia negli anni di piombo

I suoi ruoli non piacevano alla critica ma portavano buonumore quando ce n'era bisogno

Pedro Armocida - Mer, 29/06/2016 - 08:48
(http://www.ilgiornale.it/)

La vita è meravigliosa. Anche quando è morta. A volte, soprattutto quando è morta. E non sembri una forzata iperbole. Naturalmente dispiace, pensando in primis alle persone che lo hanno amato da vicino, la notizia della morte di Bud Spencer al secolo Carlo Pedersoli, classe 1929 (oggi a Roma sarà allestita la camera ardente in Campidoglio mentre domani si terranno i funerali nella Chiesa degli artisti in piazza del Popolo).

Però se un'intera collettività elabora la morte di un attore come fosse uno della propria famiglia, allora anche nella fine tutto sembra acquistare un senso.



«Ho perso il mio amico più caro, sono sconvolto» ha detto Terence Hill, il compagno d'una vita di film, diciotto per la precisione. Insieme hanno dato vita a una delle grandi coppie della storia del cinema che lavorava molto sui fisici diversi (Bud Spencer viaggiava tra i 120 e i 160 chili), proprio come Stanlio e Olio (Russell Crowe intervistato recentemente da Marta Perego su Iris per il film The Nice Guys in coppia con Ryan Gosling non ha fatto altro che ricordare Bud Spencer reinterpretandone la famosa scena del coro dei pompieri di Altrimenti ci arrabbiamo in cui si passa le dita sulle labbra emettendo un «ba ba brerere...»).

«Siamo l'unica coppia a non aver mai litigato. E proprio perché non c'era invidia siamo diventati amici. A differenza mia, aveva studiato per recitare. Io non ho fatto scuole né accademie. Ma alla fine anche una scimmia impara a recitare», ha ricordato Terence Hill, anch'egli, al secolo, con un nome molto italiano, Mario Girotti. Anche se la coppia che ha fatto ridere tutti, ma proprio tutti (a parte forse qualche critico che non lo voleva ammettere), ha attraversato i confini dell'Italia conquistando il pubblico di mezzo mondo. Così il ministro della giustizia tedesco si è sentito di dover cinguettare: «Il pugno duro e il cuore tenero. Un eroe della mia infanzia»; mentre tutti i principali quotidiani di quel paese hanno ricordato l'attore anche in prima pagina.


Un coro quasi unanime, un cordoglio generale pieno di ricordi affettuosi, per uno dei nostri pochi artisti che ha manifestato le sue simpatie politiche senza nascondersi. Come quando si candidò nelle liste di Forza Italia nel 2005 nel Lazio a sostegno del presidente uscente Francesco Storace senza però venire eletto. Anche in quel caso, il pubblico che lo ha amato (su Facebook la pagina di Bud Spencer ha un milione e mezzo di fan), probabilmente ha voluto scindere i due aspetti tenendosi per sé quello più privato. Quello legato indissolubilmente ai ricordi personali. A quella prima volta al cinema a vedere le botte parecchio comiche che davano Bud Spencer e Terence Hill. E a leggerli questi ricordi, anonimi ma universali, viene il groppo in gola. Perché sono memorie che uniscono soprattutto i figli con i padri, magari intanto scomparsi, e viceversa. Sono certamente ricordi un po' più «maschi» anche se erano tante le sorelle che si divertivano con quei film, al cinema con tutta la famiglia. Quando andare al cinematografo era ancora una festa, un po' speciale, come la pizza il sabato sera o le pastarelle la domenica.

Perché la coppia dei «fagioli western» il cinema li riempiva facendo trascorrere qualche ora spensierata a un'Italia che non aveva molto da sorridere in quegli anni di piombo.

Anni difficili anche all'estero in cui due film della coppia d'oro sono stati girati nel Sudafrica dell'apartheid del regime di Pretoria, Io sto con gli ippopotami (1979) e Piedone l'africano (1978). Il piccolo interprete di quest'ultimo film, Baldwin Dakile, che un giorno non fu fatto entrare insieme alla troupe in un ristorante solo per bianchi, è stato adottato a distanza da Bud Spencer ed è diventato un avvocato in Sudafrica.

Quasi impossibile calcolare, rapportandoli ai valori odierni, gli incassi di film che detengono anche un altro peculiare record, quello dei puntini nei titoli: Lo chiamavano Trinità..., Dio perdona... io no!, ...più forte ragazzi!, ...altrimenti ci arrabbiamo!, ...continuavano a chiamarlo Trinità. Tutti film che sono tra i 50 più visti al cinema nel nostro Paese. Qualsiasi confronto è improponibile, vincono tutto loro. Proprio come hanno continuato a vincere le migliaia di volte che sono stati programmati in tv, ogni passaggio un successo. E' anche grazie a loro se il cinema italiano è andato avanti come industria popolare. Una popolarità che per Terence Hill continua ancora oggi con il grandissimo successo di Don Matteo. Purtroppo ora completamente in solitaria.