Per Sergio, per Enrico, per Anita. Per non dimenticare
del 29 aprile 2015
Lo so, 40 anni sono tanti, e la gran parte di chi mi leggerà non era ancora nato il 29 Aprile del 1975.
Eppure, l’assassinio di Sergio Ramelli è uno di quegli episodi che hanno tracciato la mia vita.
Perché è accaduto nella mia città,la Milano in cui frequentavo la prima media.
Perché ho il nitido ricordo di mia madre che, appresa la notizia alla televisione, si rivolse a mio padre parlandogli dello strazio di quei genitori. Ed io che nulla sapevo di quanto fosse accaduto – nel 1975 un ragazzino di 11-12 anni era molto meno “sgamato” di un suo coetaneo dei nostri giorni – le chiesi di cosa stesse parlando.
Eppure, l’assassinio di Sergio Ramelli è uno di quegli episodi che hanno tracciato la mia vita.
Perché è accaduto nella mia città,
Perché ho il nitido ricordo di mia madre che, appresa la notizia alla televisione, si rivolse a mio padre parlandogli dello strazio di quei genitori. Ed io che nulla sapevo di quanto fosse accaduto – nel 1975 un ragazzino di 11-12 anni era molto meno “sgamato” di un suo coetaneo dei nostri giorni – le chiesi di cosa stesse parlando.
Mia madre, figlia del capo manipolo delle camicie nere dell’Oltrepo Pavese nella Marcia su Roma, poi Console della Milizia, Maggiore del Regio Esercito, poi volontario nella Campagna d’Africa, poi imprigionato in un campo di concentramento inglese ad Addis Abeba insieme a suo figlio – mio zio – che stante la giovane età venne rilasciato, rientrò in Italia, passò da casa giusto il tempo per farsi una doccia e corse a Salò. Mia madre, che mai una parola mi ha detto sulle scelte politiche e sulle conseguenze sopportate dalla sua famiglia, e che proprio muovendo dal martirio di Sergio seguì con apprensione gli albori del mio impegno politico, mi disse “hanno ucciso un ragazzo dell’età di tuo fratello, spaccandogli la testa. Solo perché aveva espresso delle idee diverse da chi lo ha attaccato”.
Entrai in quel mondo pochi anni dopo, e sentii di appartenere ad una famiglia quando, ormai studente universitario, seguii ogni giorno le udienze del processo agli assassini, che nel frattempo si erano laureati ed erano rispettati come “persone per bene”.
Mi capitò, per un legame che ha positivamente condizionato la mia vita, di passare insieme ad Ignazio La Russa – avvocato di parte civile della famiglia Ramelli – e ad Antonio Caruso (i nostri tre padri erano tra loro amici di infanzia) le notti nello studio di Ignazio, mentre lui studiava e provava la linea processuale, sentendo la responsabilità di chi non deve assolvere un incarico professionale ma deve rappresentare una comunità, la propria comunità. E che quella sarebbe comunque stata la mia comunità – per sempre – lo capii una mattina in Corte d’Assise a Milano.
Il rimbombo fu spaventoso, fu come se tutti, in quell’Aula, fossimo stati colpiti con violenza, inaudita, inattesa, ingiusta.
Come Sergio.Come finì lo sappiamo, gli assassini vennero condannati, scontarono pochissima pena e si fecero una vita, una famiglia, un lavoro, passioni, amori, gioie e preoccupazioni. Uno di loro addirittura oggi è primario di Psichiatria a Niguarda. Vissero e vivono insomma, ciò che impedirono ad un ragazzo di 17 anni la cui arma era una penna con la quale scrivere un tema a scuola.
Da quel giorno è cambiato tutto, o almeno così sembra ad un occhio superficiale, perché poi – se ti fermi a pensarci – ti accorgi che lo strabismo sociale e politico continua, che ciò che a noi non sarebbe nemmeno consentito immaginare, diventa regola di sopruso per la sinistra. Coperta, ancora oggi, da un manto di ipocrita protezione da parte dell’informazione, delle istituzioni, della giustizia.
E’ di ieri la notizia dell’incendio appiccato alla libreria Ritter, e non ho sentito alcun solone dell’intelligencija nostrana gridare allo scandalo.
Da quel giorno è cambiato tutto, o almeno così sembra ad un occhio superficiale, perché poi – se ti fermi a pensarci – ti accorgi che lo strabismo sociale e politico continua, che ciò che a noi non sarebbe nemmeno consentito immaginare, diventa regola di sopruso per la sinistra. Coperta, ancora oggi, da un manto di ipocrita protezione da parte dell’informazione, delle istituzioni, della giustizia.
E’ di ieri la notizia dell’incendio appiccato alla libreria Ritter, e non ho sentito alcun solone dell’intelligencija nostrana gridare allo scandalo.
I debosciati dei centri sociali mettono a ferro e fuoco le città ogni volta che escono dalle loro topaie ma la questura si preoccupa se i ragazzi di destra vogliono commemorare in piazza l’anniversario della morte di Sergio.
Un Presidente recuperato in extremis dal serbatoio della prima repubblica, sceglie la data simbolo di una devastante guerra civile per indicarla come il momento che dovrebbe rappresentare l’unità; pochi giorni dopo il capo del maggior partito della sinistra mette la fiducia sulla legge elettorale. E tutto tace.
No, noi siamo figli di un dio minore, ma siamo quelli che – per scelta – appartengono ad una storia in cui tutto, anche le cose più banali, sono più difficili da raggiungere, da ottenere. Anche quando ne hai diritto.
Ma è il nostro modo di essere. Ed è ciò che ogni giorno mi fa pensare di essere dalla parte giusta; che mi porta a credere che stare sinistra sia una condizione di minorità mentale, quasi una tara psichiatrica da curare in quel reparto che oggi è guidato da chi, 40 anni fa, scaricò una mazza di ferro sul cranio di un ragazzino che non si era omologato.
No, noi siamo figli di un dio minore, ma siamo quelli che – per scelta – appartengono ad una storia in cui tutto, anche le cose più banali, sono più difficili da raggiungere, da ottenere. Anche quando ne hai diritto.
Ma è il nostro modo di essere. Ed è ciò che ogni giorno mi fa pensare di essere dalla parte giusta; che mi porta a credere che stare sinistra sia una condizione di minorità mentale, quasi una tara psichiatrica da curare in quel reparto che oggi è guidato da chi, 40 anni fa, scaricò una mazza di ferro sul cranio di un ragazzino che non si era omologato.
Questa sera tanti ragazzi, molti dei quali di anni ne hanno meno di 40, organizzano una serata celebrativa in piazza, a Milano, di fronte alla Chiesa in cui vennero celebrati i funerali di Sergio ed in cui, poco più di un anno fa, salutammo per l’ultima volta la mitica “mamma Anita”, guarda caso, la stessa chiesa in cui – 60 anni fa – si sposarono i miei genitori.
Già, mamma Anita, sempre presente ad ogni nostro appuntamento, sempre interessata alle nostre vicende. Così amorevole con noi, con me. Eppure, l’unica persona al mondo di fronte alla quale mi sia sempre sentito in soggezione. La guardavo negli occhi e pensavo alle parole di mia madre, quel giorno: “pensa allo strazio di quei poveri genitori”.
Questa la mia vicenda personale. Per questo stasera ci sarò, in quella piazza, a titolo personale e riservato, insieme a tutti quanti – nella diaspora dolorosa – fanno comunque parte di “quel mondo”.
Non ho il dono della Fede, e non sono quindi tra quanti pensano che Sergio ci vedrà. Ma ci sarò, egoisticamente, per me stesso.
Non ho il dono della Fede, e non sono quindi tra quanti pensano che Sergio ci vedrà. Ma ci sarò, egoisticamente, per me stesso.
Per ricordarmi che da lì nasce la mia storia, e che lì restano – tutti ed invariati – i motivi del mio impegno.
del 30 aprile 2015
Oggi per me è un giorno importante, è il 29 aprile. Quaranta anni fa Sergio Ramelli veniva barbaramente ucciso sotto casa, senza nessuna colpa se non la sua appartenenza al Fronte della Gioventù dell’allora Msi. Nel mio studio di avvocato penalista, difendevo allora la mamma di Ramelli, vennero i colpevoli a portarmi una lettera con una richiesta di perdono. Una richiesta che io, a nome della mamma di Sergio, accolsi perché il sacrificio di quel ragazzo non fosse mai la rivendicazione di una parte ma potesse aspirare ad arrivare ad un momento di pacificazione, un monito per le nuove generazioni contro una cieca violenza e una pratica del ‘divide et impera’ che in quegli anni era una consuetudine per chi comandava.
A 40 anni di distanza non vorrei che quel messaggio di pacificazione, amore e sacrificio per l’Italia venisse dimenticato da chi oggi a Milano manifesta contro il ricordo di questo ragazzo. Il modo migliore per celebrarne la memoria è di offrire il suo ricordo a tutti gli italiani. Sergio Ramelli è oggi presente col gruppo di Fratelli d’Italia, qui in Parlamento.
40 anni dopo/ Condannato per l’omicidio Ramelli, ora è primario al Niguarda di Milano
RispondiEliminaRedazione del 27 aprile 2015
Gli assassini di Sergio Ramelli hanno pagato il loro debito con la giustizia?
Una domanda che ci accompagnerà per anni ed è destinata a dividere l’opinione pubblica in almeno due fazioni. Analizzando la questione sempre da un punto di vista ideologico. Certo, per chi urlava lo slogan “Uccidere un fascista non è reato” costoro non avrebbero neppure dovuto subire un processo. Erano altri tempi e ce li siamo lasciati alle spalle, forse.
Proprio per questo non stupisce in sé il fatto che uno dei condannati in via definitiva per l’omicidio di Sergio Ramelli, Claudio Scazza, sia diventato primario all’ospedale Niguarda di Milano. Può succedere ed è giusto che accada, una volta pagato il debito con la giustizia.
Quello che ci chiediamo però è proprio questo: si può dire che Claudio Scazza abbia pagato il proprio debito? E soprattutto, sappiamo con certezza se ci sia stato un vero pentimento?
Attenzione, pentimento significa sincero processo interiore che porta a un’assunzione di responsabilità e a una presa di coscienza: “Quel giorno, quel 13 marzo, abbiamo sbagliato ad aggredire un ragazzo di 17 anni colpendolo con le spranghe e causandone la morte. Per motivi di dissenso politico”. Non significa rinnegare quegli anni, parlare di “errori di gioventù” o di “compagni che sbagliavano”, offendendo una seconda volta i morti ammazzati.
Che Sergio Ramelli non meritasse di morire per la sua appartenenza al Fronte della Gioventù o addirittura per un tema è chiaro a (quasi) tutti. Eppure, coloro che quel 13 marzo 1975 l’hanno aggredito a sprangate hanno aspettato ben 12 anni per inviare una lettera di scuse alla madre Anita. Dodici anni e poche parole: “Non avevamo nulla di personale contro suo figlio, non lo avevamo mai conosciuto né visto. Ma, come troppo spesso accadeva in quel periodo, il fatto di pensare in modo diverso automaticamente diventava causa di violenza gratuita e ingiustificabile. Nessuno di noi, però, aveva l’intenzione e neppure il sospetto che tutto potesse finire in modo così terribile. Oggi riteniamo profondamente sbagliato, anzi inconcepibile, dirimere le differenze tra i diversi modi di pensare con la pratica della violenza“. Quasi fosse un atto dovuto.
E un’offerta di 200 milioni di lire, che la madre Anita ha rifiutato con estrema dignità.
Quando si sono costituiti, nell’ottobre del 1990, la prima preoccupazione dei condannati in via definitiva è stata quella del “condono”. A gennaio di quell’anno, ben 15 anni dopo l’aggressione, era infatti arrivata la condanna definitiva per omicidio volontario. Lo stesso reato per cui oggi un muratore del bergamasco viene sbattuto su tutti i giornali, chiuso in carcere e bollato come assassino nonostante non abbia ancora subito un processo. I condannati in via definitiva per l’omicidio di Ramelli, no. Avevano una semplice questione da dirimere: il rischio dell’espulsione dall’ordine dei medici. In virtù della pene accessorie, una volta scontata l’interdizione dai pubblici uffici, gli otto condannati avrebbero rischiato di non poter tornare al loro lavoro di medici.
Neppure gli anni di carcere sono stati un grande problema. I due autori materiali, Marco Costa e Giuseppe Ferrari Bravo, sono stati condannati rispettivamente a 10 anni e un mese e a 9 anni e 7 mesi. Antonio Belpiede e Claudio Colosio a 7 anni. Tutti gli altri, Claudio Scazza compreso, a 6 anni e 3 mesi. Pene piuttosto irrisorie, considerando la gravità del reato. Omicidio volontario.
RispondiEliminaMarco Costa è stato affidato presto ai servizi sociali, Giuseppe Ferrari Bravo alla semilibertà. Gli altri hanno beneficiato di condoni e regimi limitativi o sostitutivi.
Ferrari Bravo è diventato giornalista di “Liberazione”, quotidiano di Rifondazione Comunista. Antonio Belpiede da qualche anno è primario a Canosa, in Puglia. Dal 1 gennaio 2015 anche Claudio Scazza è arrivato all’apice della sua carriera: è primario del reparto di Psichiatria 3 di Niguarda. Un reparto di cui abbiamo già avuto modo di parlare nel dicembre 2012, per alcune denunce di maltrattamenti ai danni dei pazienti. E anche un caso di mobbing.
Tutto dimenticato, forse.
Come Ramelli.
E anche sulla stessa nomina a primario di Scazza si vuole in qualche modo calare una patina di silenzio: nei mesi scorsi la notizia era stata riportata su Wikipedia, la famosa enciclopedia collaborativa, citando anche il precedente penale per il caso Ramelli.
Dopo pochi giorni, manco a dirlo, è stata rimossa sia dalla voce di Wikipedia “Sergio Ramelli” (è stata considerata un vandalismo) sia dalla voce “Ospedale di Niguarda Ca’Granda”. Il semplice ricordo del coinvolgimento nell’omicidio Ramelli è stato considerato un vandalismo. Ogni successivo tentativo di ripristino della notizia veniva immediatamente cancellato.
Gli assassini di Ramelli hanno pagato il loro debito e ora possono essere reintegrati e godere del diritto all’oblio? Oppure non è successo nulla, Ramelli non è stato mai ucciso?
Sappiamo che aspiranti medici che “non volevano ucciderlo” l’hanno colpito a morte con spranghe (ecco perché, a nostro avviso, l’espulsione dall’ordine non sarebbe stata un’eresia). E che sono stati condannati. Hanno scontato le loro condanne in modo discutibile e hanno fatto carriera. Il resto, lo decideranno i lettori.
10/05/2015 14:52
RispondiEliminaLa storia di Sergio Ramelli e dei suoi assassiniEdizione speciale, a quarant'anni dall'omicidio. Con la prefazione di Stefano Del Miglio (Lealtà Azione)
Gli autori: 'Questa è una storia che deve essere conosciuta se si vuole avere una visione completa degli avvenimenti del nostro recente passato'
“13 marzo 1975: un ragazzo di 18 anni viene aggredito sotto casa. Due persone gli spappolano il cranio a colpi di chiave inglese. Muore dopo 47 giorni di agonia. Chi era la vittima, e perché fu ucciso con tanta violenza? In che clima era maturato quell'omicidio così bestiale? Chi erano i carnefici? Teppisti, killer professionisti, mafiosi? No, studenti universitari di medicina. Perché uccisero allora? Forse accecati dall'ira, dalla gelosia o dalla paura? No, neppure conoscevano la loro vittima. Colpirono solo in nome dell'odio politico”.
Bastano queste poche righe, tratte dalla quarta di copertina, per comprendere l'importanza di un volume come “Sergio Ramelli, una storia che fa ancora paura”, uscito per la prima volta nel 1997 e nuovamente pubblicato in sette edizioni, l'ultima delle quali, a tiratura limitata, disponibile in libreria ed in formato e-book da aprile 2015 (Ed. Lorien, con prefazione del responsabile dell'Associazione culturale Lealtà Azione Stefano Del Miglio). Un libro divenuto, nel corso degli anni, un autentico caso editoriale: è infatti ad oggi il più diffuso tra i titoli dell'editoria “non conforme”.
Un libro che è un fondamentale strumento di informazione e di documentazione storica, scritto da Guido Giraudo e da un gruppo di ragazzi del Fronte della Gioventù di Monza. Gli autori, tra atti processuali, articoli di giornale e testimonianze dirette, hanno ricostruito passo per passo una vicenda drammatica. “Ad armare la mano degli assassini – scrivono – è stata una spietata ideologia che in Italia aveva (ed ha ancora) importanti complicità, potenti connivenze e forti leve di potere. Ecco perché questa è una storia che, anche a distanza di 40 anni, fa ancora paura. Una storia che però deve essere conosciuta se si vuole avere una visione completa degli avvenimenti del nostro recente passato”.
Cristina Di Giorgi