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giovedì 22 novembre 2012

162) IL FRATELLO DI ANTONIO GRAMSCI



Mario Gramsci

Nel settantesimo della morte di Antonio Gramsci, vogliamo dedicare queste poche righe alla memoria di un uomo che seppe vivere e morire per le sue idee.

Non ci riferiamo ad Antonio, il pensatore e leader comunista, ma a suo fratello Mario dimenticato da tutti perché ebbe la sventura di vestire la camicia nera.

Più giovane di dodici anni, Mario Gramsci aderì al fascismo al ritorno dalla prima guerra mondiale che combatté con il grado di sottotenente.

A nulla valsero i tentativi del fratello Antonio di convincerlo ad abbandonare la fede fascista per aderire a quella comunista, non ci riuscirono neppure le bastonate dei compagni che lo ridussero in fin di vita.

Fu il primo segretario federale di Varese, volontario per la guerra d’Abissinia e combattente nel ’41 in Africa settentrionale.

Dopo l’8 Settembre ’43, quando l’Italia si svegliò col fazzoletto rosso attorno al collo e la bandierina americana in mano,
Mario Gramsci, invece di gettare la sua divisa come fecero molti suoi coetanei, continuò a combattere.

Ma lo fece dalla parte sbagliata, dalla parte dei perdenti.

Aderì infatti alla Repubblica Sociale Italiana.

Fatto prigioniero, fu torturato per fargli abiurare la sua fede fascista.

Poi fu deportato in uno campo di concentramento in Australia dove le durissime condizioni di detenzione riservate ai militari fascisti non renitenti, cominciarono a minare la sua salute.

Rientrò in Patria sul finire del ’45 e subito dopo morì in un ospedale di terz’ordine attorniato solo dall’affetto dei suoi cari.

Andò sicuramente meglio al celebre fratello Antonio che quando si ammalò in carcere, a causa di una malattia contratta da adolescente, fu scarcerato e, da uomo libero, poté curarsi a spese del Regime in una famosa clinica privata.

Non pretendiamo che Mario Gramsci sia ricordato alla stregua del fratello maggiore a cui, giustamente, sono dedicati libri e intitolate piazze - perché al di là del giudizio storico rimane un grande del novecento – ma un piccolo pensiero, crediamo, lo meriti anche lui.

Con Mario Gramsci vogliamo onorare tutti fratelli “minori”, come il fratello di Pier Paolo Pasolini ucciso dai partigiani comunisti. Dimenticati, questi fratelli d’Italia, perché caddero dalla parte sbagliata.

 
Gianfredo Ruggiero, Presidente del Circolo Culturale Excalibur

martedì 13 novembre 2012

161) STATI UNITI E OBAMA AL BIVIO DELLA STORIA


DELLE NUOVE SFIDE ATTENDONO GLI USA, NELLA LORO METAMORFOSI ETNICA ED ECONOMICA, E IL RICONFERMATO PRESIDENTE BARACK OBAMA: O SOCCOMBERE ED ESSERE TRAVOLTI O CERCARE SOLUZIONI ESTREME PER MANTENERE IL RUOLO GUIDA DI NAZIONE PIU’ FORTE E PIU’ POTENTE DELLA TERRA.



Il Presidente uscente e democratico Usa, Barack Obama (primo presidente afroamericano), è stato riconfermato dagli elettori americani per un secondo mandato di altri quattro anni. Gli Usa hanno uno strano sistema elettorale: spesso accade che il candidato che piglia più voti perde perché i numeri elettorali variano da stato a stato statunitense. I media italiani si sono schierati per Obama: hanno cercato in tutti i modi di favorirlo e di boicottare l’avversario. Lo sfidante repubblicano Mitt Romney si aspettava di giocarsi la partita e poterla anche spuntare, sfruttando l’onta negativa del tracollo finanziario internazionale, partito proprio dagli Usa. Due fattori hanno fatto pendere l’ago della bilancia dalla parte del presidente uscente: l’uragano Katrina che si è abbattuto sulla costa orientale degli Usa, in cui Obama ha vestito i panni di angelo soccorritore, assistendo in prima persona le popolazioni colpite dal cataclisma naturale; la sempre crescente popolazione ispanica degli Stati Uniti, la quale ha privilegiato un candidato più aperto alle tematiche migratorie e alla regolarizzazioni di immigrati latini che si introducono illegalmente nel suolo statunitense (la medesima tattica che vorrebbe adottare la sinistra italiana per allargarsi il proprio bacino elettorale). Per il futuro si prevede che gli ispanici (messicani in testa) faranno divenire gli Usa una nazione latinoamericana (cattolica?) e ne decideranno sempre più le sorti; come potete vedere dalla composizione etnica della nazione, ancora prima potenza mondiale, fra poco diverranno il primo gruppo etnico.


ORIGINE DELLA POPOLAZIONE USA (totale 308,7 milioni):

Afroamericani (compresi neri ispanici): 40,7 milioni;
Bianchi non ispanici: 223.553.265 (tedeschi 50,7 milioni, britannici 36,5 milioni, irlandesi 33,5 milioni, italiani 18 milioni, francesi 11,8, polacchi 10 milioni, ebrei 6,4 milioni, olandesi 5 milioni, altri 18,8)
Bianchi ispanici: 50,4 milioni;
Asiatici: 15 milioni;
Arabi: 2,6milioni;
Nativi americani (pellerossa): 4,1 milioni.


Il gruppo etnico Wasp (bianco, anglosassone, protestante), originario delle tredici colonie britanniche che diedero vita agli Usa, detiene ancora le leve del potere politico ed economico della nazione ma non costituisce più la maggioranza. Gli amerindi (o pellerossa) sono quasi estinti e vivono nelle riserve: a pensare che il Nord America era la loro terra, prima della penetrazione europea che ha segnato la loro fine. Quello americano, a differenza dell’Europa e delle sua nazioni, piccole e già formate da millenni di storia, era un immenso continente da riempire, da popolare, da formare: sfido io che si sia riempito senza limiti da gente delle più svariate etnie. La formazione dello stato è avvenuta prima con la guerra d’indipendenza contro gli inglesi, poi attraverso l’espansione a ovest (il selvaggio west) nelle guerre contro gli indiani d’America e con la guerra civile di secessione, in cui gli stati del sud degli Stati Uniti proclamarono l’indipendenza per non abolire la schiavitù. Col passare dei decenni l’America conobbe uno sviluppo economico non indifferente, divenendo terra di opportunità per tutti e prima democrazia del mondo. Le due guerre mondiali l’hanno fatta divenire la nazione più potente del globo, togliendo lo scettro a Francia e a Gran Bretagna, le quali difficilmente le avrebbero vinte senza l’apporto decisivo americano e così entrarono nella sua sfera d’influenza. Per circa un cinquantennio è stata contrastata dall’Urss e dal suo sistema economico socialista, all’opposto di quello capitalista su cui poggiavano i fondamenti degli Stati Uniti. Cessato il pericolo sovietico e con esso l’incubo di una guerra atomica totale, la nazione non ebbe più nessun rivale temibile che potesse contrastarla e continuò a prosperare sempre di più. Il suo ruolo egemone nel decidere le sorti di tutto il pianeta, in particolare nell’area mediorientale, lo fece divenire un paese inviso ed odiato, per cui dei gruppi terroristici, spinti anche da motivi di fanatismo religioso e di guerra santa contro l’occidente, lo presero di mira ed arrivò l’11 settembre 2001. Due lunghissime e costosissime guerre di contrasto al terrorismo islamico in Afghanistan ed in Iraq comportarono per gli Usa l’inizio dei loro guai attuali. In contemporanea con le guerre iniziò la crisi dei mutui bancari e del marcato immobiliare. Molte persone acquistavano le case e le automobili di lusso senza avere i soldi, affidandosi a finanziamenti che non erano coperti: denaro virtuale, telematico.



Molte banche e molte imprese sono fallite: tutto l’occidente è stato travolto e con esso buona parte del mondo. Con l’illusione che il capitalismo avesse prevalso sul comunismo, le nazioni occidentali non si diedero più limiti nell’adottare politiche sempre più liberali, senza controlli statali, abbandonando la teoria di Keynes su domanda ed offerta, attraverso la vigilanza dello stato, e i tecnocrati della finanza dettarono le nuove leggi. I tecnici che governano l’Italia sono le conseguenze dei mercati e dei finanzieri internazionali che impongono il loro volere: costoro farebbero pagare persino un caffè con le carte bancarie telematiche. Se la situazione non migliorerà gli Stati Uniti d’America potrebbero trovarsi nello stesso bivio in cui si trovava l’Unione Sovietica all’inizio degli anni ’80, quando la sua economia era al collasso per stare al passo con l’America nel campo degli armamenti: o accettare il crollo del sistema politico ed economico e non decidere più i destini del mondo intero, acconsentendo di essere superata da nazioni emergenti come da una Cina aperta al libero mercato e da altre, oppure cercare una “grande guerra” per risollevarsi e mantenere l’egemonia mondiale. Ricordiamo che gli Stati Uniti Americani superarono definitivamente la grande depressione del 1929 con la vittoria nella Seconda Guerra Mondiale. Il merito della ripresa non fu solo del “nuovo corso” di lavori pubblici voluti dall’allora presidente Roosevelt. Ora non so dire come finirà, però è certo che le condizioni economiche della gente comune peggiorano sempre di più e quest’ultima sarà costretta a cambiare mentalità e stili di vita.

venerdì 9 novembre 2012

160) VESPA SU MUSSOLINI E LA CRISI DEL 1929

Quella ricetta di Mussolini che salvò l'Italia dalla crisi


Nel nuovo libro di Vespa vengono analizzate in chiave attuale le misure che il Duce introdusse per tirare fuori il Paese dal baratro. Molte sarebbero d'esempio anche oggi

Esce oggi in tutta Italia il nuovo libro di Bruno Vespa «Il Palazzo e la piazza. Crisi, consenso e protesta da Mussolini a Beppe Grillo» (Mondadori-Rai Eri, 444 pagine, 19 euro). Il saggio dell'anchorman e conduttore di Porta a porta è una cavalcata attraverso le crisi economiche italiane e internazionali, dalla crisi del 1929 a quella attuale, che pesa di più sull'umore popolare per i clamorosi casi di corruzione politica che hanno fatto esplodere astensionismo e voto di protesta anche nelle recenti elezioni siciliane.


Ne pubblichiamo un ampio brano dedicato all'operato del Duce.


Poiché è stata la crisi del 2011-12 a suggerire l’idea di questo libro, e a fronte delle difficoltà incontrate dal go­verno Monti nel taglio della spesa pubblica, può essere interessante vedere come se la cavò Mussolini nell’altra Grande Crisi del secolo scorso. Come ogni regime dittatoriale, il fascismo spendeva grosse cifre per la difesa: all’inizio della crisi es­se rappresentavano il 32 per cento del bilancio statale, contro il 14 de­gli stanziamenti per opere pubbli­che. Ora, negli anni successivi al 1931, il bilancio della Difesa fu ta­gliato del 20 per cento, mentre lo stanziamento per opere pubbli­che fu quasi raddoppiato. («Nei primi dieci anni del mio governo­ - amava puntualizzare il Duce- si è speso in opere pubbliche più di quanto abbiano speso i governi li­berali nei primi sessant’anni dal­l’Unità d’Italia»). Il bilancio della polizia, altra po­sta strategica del regime, fu decur­tato del 30 per cento, come quello della Giustizia, mentre gli stanzia­menti per le Colonie furono ridot­ti quasi del 50 per cento. Colpisce, invece, che non sia stato tagliato di una sola lira il bilancio della Pubblica istruzione. Nonostante la scuola fosse uno dei settori sui quali Mussolini puntava mag­giormente (famoso lo slogan «Libro e moschet­to »), l’istruzione non fu mai veramente «fascistiz­zata », perché tra gli stessi in­segnanti fascisti erano pochi quelli che accettavano di svuotare la scuola della sua funzione culturale appiatten­dosi completamente sulle esi­genze del regime. Furono ridotti del 20 per cento anche i servizi fi­nanziari, malgrado i robusti inter­venti per salvare banche e impre­se. Nella prima metà degli anni Trenta il bilancio dello Stato oscil­lò tra i 19 e i 21 miliardi di lire. Nel­l’esercizio finanziario 1930-31 il disavanzo fu limitato al 2,5 per cento, ma dall’anno successivo passò via via dal 20 al 35, per ridi­scendere al 10 nel biennio 1934-35.

Per farvi fronte, non volendo ri­nunciare alla parità aurea nono­stante la svalutazione del dollaro e della sterli­na, Mussolini fu costretto in cin­que anni a di­mezzare le ri­serve d’oro della Banca d’Italia. Gli inasprimenti fiscali raggiun­sero il picco nel 1934 con l’aggravio delle imposte sugli scambi e sulle successioni. Fu lì che il Du­ce disse «basta», con una frase che suonerebbe ancor oggi di notevo­le buonsenso: «La pres­sione fiscale è giunta al suo limite estremo e biso­gna la­sciare per un po’ di tempo as­solutamente tranquillo il contri­buente italiano e, se sarà possibi­le, bisognerà alleggerirlo, per­ché non ce lo troviamo schiacciato e defunto sotto il pesante far­dello ». (...) La diffusione delle biciclette e delle tramvie ex­traurbane aveva favorito il pendola­rismo tra campagna e città, cosicché si for­mò una potenziale nuova classe lavoratrice che i sindaca­ti cercarono di arginare, difenden­do gli operai urbani. I sindacati fa­scisti chiesero la riduzione del­l’orario lavorativo settimanale a 40 ore a parità di salario: l’Italia fu il primo paese al mondo a intro­durre tale misura fin dal 1934, una scelta così avanzata che è ancora in vigore quasi ottant’anni dopo. (…)

Nel 1933 il regime modificò radi­calmente il sistema assicurativo pubblico creando l’Istituto nazio­na­le fascista della previdenza so­ciale (Infps), dotato di gestione autonoma. Prima della fine del decennio, furono appron­tati diversi ammortizzatori sociali,come l’assicurazio­ne contro la disoccupazio­ne, gli assegni familiari e le integrazioni salariali per i lavoratori sospesi o a ora­rio ridotto. Per compensare i sacri­fici chiesti ai lavoratori e alle loro famiglie con le riduzioni salariali, il regime predispose «una serie di servizi sociali e di possibilità ricre­ative, sportive, culturali, sanita­rie, individuali e collettive, sino al­lora sconosciute o quasi in Italia e che influenzarono largamente il loro atteggiamento verso il fasci­smo e soprattutto quello dei giova­ni che più ne usufruirono». (...) In un paese ancora povero, in cui pochissimi bambini potevano permettersi le vacanze al mare, fu provvidenziale l’istituzione delle colonie estive, i cui ospiti passaro­no da 150mila nel 1930 a 475mila nel 1934. Nel 1926, un anno dopo la sua costituzione, l’Opera nazio­nale dopolavoro contava 280mila iscritti, che un decennio più tardi erano saliti a 2 milioni 780mila, per raggiungere i 5 milioni alla vigi­lia della seconda guerra mondia­le: quasi il 20 per cento dell’intera popolazione italiana. Gli aderenti godevano di alcune forme di assi­stenza sociale integrativa oltre a quella ordinaria, della possibilità di fruire di sconti e agevolazioni e, soprattutto, di partecipare a una lunga serie di attività sportive, ri­creative e culturali.

Agli adulti la tessera del dopolavoro dava dirit­to a forti sconti su ogni tipo di sva­go: dai cinema ai teatri, dai viaggi alle balere, dagli abbonamenti ai giornali alle partite di calcio. Tut­ti, iscritti e non, avevano diritto ­se bisognosi- alla refezione scola­stica, a libri e quaderni gratuiti,al­l’accesso a colonie marine, ai cam­peggi estivi e invernali, all’assi­stenza nei centri antitubercolari. (...) Rexford Tugwell, l’uomo più di sinistra dell’amministrazione americana, pur collocandosi ideo­logicamente agli antipodi del fa­scismo, riconosceva che il regime stava ricostruendo l’Italia «mate­rialmente e in modo sistematico. Mussolini ha senza dubbio gli stes­si oppositori di Roosevelt, ma con­trolla la stampa e così costoro non possono strillare le loro fandonie tutti i giorni. Governa un paese compatto e disciplinato, anche se con risorse insufficienti. Almeno in superficie, sembra aver com­piuto un enorme progresso. Il fa­scismo è la macchina sociale più scorrevole e netta, la più efficiente che io abbia mai visto. E ne sono in­vidioso».


giovedì 1 novembre 2012

158) LAZIOGATE ED ELEZIONI SICILIANE


Laziogate, tutti assolti

Si conclude così la vicenda sul presunto accesso abusivo ai dati informatici del Comune di Roma per le Regionali del 2005. Storace: "Dopo sette anni di calvario, finisce in appello la vicenda. Mi tolsero la regione e il ministero, non la dignità".


Francesco Storace, Nicolò Accame, Mirko Maceri, Romolo Reboa, Pierpaolo Pasqua, Nicola Santoro e Vincenzo Piso riconosciuti estranei alle accuse.
"Dopo sette anni di calvario, finisce in appello la vicenda Laziogate: assolto! Mi tolsero la regione e il ministero, non la dignità". Così, grazie ad un twitter, Francesco Storace ha subito commentato la sentenza della Corte d'Appello di Roma che poco fa lo ha assolto, assieme a tutti gli altri imputati, dalla cosiddetta vicenda del 'Laziogate'. "Finisce un calvario - ha quindi rimarcato lo stesso leader de La Destra - questa vicenda mi costò la sconfitta in campagna elettorale regionale, perché esplose negli ultimi 10 giiorni. E l'anno successivo mi costò le dimissioni da ministro". 
Secondo le accuse mosse a suo tempo, e ora riconosciute del tutto risibili con ulteriore 'sbugiardamento' dell'accusatore Dario Pettinelli, l'allora presidente della Regione avrebbe chiesto ad alcune persone di introdursi all'interno dell'anagrafe del Comune di Roma per verificare l'esistenza di eventuali firme false prodotte per presentare la lista della Mussolini alle Regionali del 2005. Ribaltando le tesi della sentenza di primo grado, l'11 giugno scorso il Procuratore Generale Antonio La Rosa aveva chiesto l'assoluzione di Francesco Storace e degli altri imputati.
I giudici della I corte d'appello di Roma, presidente Eugenio Mauro, hanno dunque fatto cadere le accuse nei confronti Francesco Storace (che veniva da una condanna a 18 mesi), del suo ex portavoce Nicolò Accame, che  in primo grado aveva avuto 2 anni. Con la formula del fatto che "non sussiste" è stata emessa una sentenza di assoluzione che ribalta il giudizio del primo processo. Assolti Mirko Maceri, che era ex direttore di Laziomatica; così come l'avvocato Romolo Reboa (che presentò l'esposto a suo tempo contro As); e Nicola Santoro, figlio del magistrato della commissione elettorale presso la corte d'appello di Roma che escluse Alternativa Sociale dalle elezioni. Avevano avuto un anno. Reboa al termine dell'udienza è commosso. "Abbiamo vissuto un incubo", si lascia scappare. Cadute le contestazioni anche per l'allora vicepresidente del consiglio comunale per An, Vincenzo Piso (per cui anche in primo grado la Procura aveva chiesto l'assoluzione). Unica condannata, Tiziana Perreca, ex collaboratrice dello staff di Storace, che ha avuto 6 mesi per favoreggiamento. Per lei pena ridotta, visto che nel primo grado aveva avuto 8 mesi. Confermata l'assoluzione di Daniele Caliciotti, l'ex dipendente di Laziomatica. E nei suoi confronti non era stata appellata la sentenza.
La sentenza di oggi pomeriggio sul caso 'Laziogate' è anche frutto delle richieste fatte dalla Procura generale nel corso del suo intervento, nel giugno scorso. Lo stesso rappresentante dell'ufficio della pubblica accusa aveva chiesto, allora, l'assoluzione di Francesco Storace e degli altri imputati. In pratica aveva spiegato il pg Antonio La Rosa non ci fu alcun illecito nel procedere all'accesso al sistema informatico del Comune di Roma, attraverso il computer dell'allora direttore di Laziomatica Mirko Maceri, la notte tra il 9 e il 10 marzo del 2005. "Esisteva una convenzione che autorizzava lo stesso Maceri ad accedere alla banca dati del Campidoglio per acquisire informazioni sanitarie e quelle relative alla carta di identità", spiegò il magistrato.
Il difensore di Storace, l'avvocato Giosuè Bruno Naso, ha così commentato la sentenza: "Non c'era bisogno di attendere 7 anni per certificare l'estraneità di Storace a qualsivoglia comportamento men che legittimo. Bastava leggere con obiettività e senza pregiudizi proprio il verbale del principale accusatore per comprendere che il mio assistito era estraneo a quell'operazione di acquisizione dei dati anagrafici, che peraltro la Corte d'appello ha stabilito oggi essere consentita".

A QUANDO LE SCUSE DI TUTTI I LINCIATORI?





Regione già senza maggioranza. Per Crocetta c'è aria di inciucio

Crocetta vince con il 30% di voti: "Non mi alleo con nessuno". La metà degli elettori diserta le urne. M5S primo partito. Fli-Idv-Sel fuori. LO SPECIALE Fitch declassa la Regione

Era la soluzione meno attesa. Era, probabilmente, la più logica. Perché nella Sicilia del «tutto cambi perché nulla cambi» di gattopardiana memoria, che alla fine la spuntasse Rosario Crocetta, sostenuto dalla parte del Pd che ha appoggiato il governo di Raffaele Lombardo e dall'Udc che col Pd ha sostenuto in parte lo stesso esecutivo del ribaltone, era, diciamolo, più che prevedibile.

A dispetto dei sondaggi, che assicuravano che ci sarebbe stato un testa a testa tra Crocetta e il candidato Pdl Nello Musumeci.

A dispetto di altri sondaggi, che addirittura davano per vittorioso l'ignoto candidato di Beppe Grillo, Giancarlo Cancelleri. E invece no, ha vinto il passato rivestito di nuovo e diventato futuro, anzi «futuro rivoluzionario», come dice il neo governatore. E ha vinto facile, Crocetta, su Musumeci: cinque punti abbondanti di scarto a spoglio quasi completato, 30,9% contro 25,2%; terzo il grillino con un più che ottimo 18.
Cambiare tutto per non cambiare nulla. Sono maestri i siciliani, a volte, in quest'arte. E anche questa volta non si sono smentiti. L'aria di vittoria, però, si sente sin dal mattino, nella sede palermitana del comitato elettorale tappezzata di immagini antimafia di Crocetta. Una sede che meriterebbe il brevetto di vittoria sicura: qui, a maggio, era il comitato elettorale di Leoluca Orlando, al ballottaggio poi incoronato sindaco; nello stesso posto, via Mazzini angolo con via Libertà, cuore della Palermo bene, si è piazzato il comitato elettorale di Crocetta. E anche lui ha fatto bingo, senza patemi. Già intorno a mezzogiorno i primi boati: più sezioni si spogliano, più si consolida una forbice difficilissima da colmare, sei punti, dal candidato Pdl.
Alle 13, mentre il neo governatore è ancora lontano, a Palermo già si festeggia. Arriva l'ex presidente dell'Antimafia Beppe Lumia, uno degli artefici dell'inciucio con Lombardo nel governo scorso. Arrivano, alla spicciolata, gli altri big, rispunta persino Sergio D'Antoni. È la rivincita per il partito di Bersani. La rivincita per una serie di scelte sbagliate pagate care nelle urne, l'ultima proprio a Palermo, le scorse elezioni. La vittoria è sperata ma non attesa. E infatti al comitato è caos, disorganizzazione. Caos che diventa delirio quando alle 16 e 40, arriva il vincitore. Il popolo di Crocetta accoglie il suo re in strada. E lui, da re, incede bloccando la strada, rispondendo ai cronisti e ripetendo come un mantra: «Non ho la maggioranza? Il problema è vostro, non mio. Io non sono uomo da inciuci, non faccio alleanze con nessuno, presenterò progetti. Se non passeranno richiamerò i siciliani alle urne, e questa volta mi daranno il 60%». C'è aria di festa, qualcuno gli ricorda il voto di castità: «Sarò casto per forza, ormai sono vecchio, non mi vuole più nessuno». Dedica alla mamma, e smentita di avere avuto voti dal gruppo Miccichè-Lombardo: «Non credo proprio». Ironico con chi gli ricorda il patto della Croc-chè, dalla crasi dei cognomi suo e di Miccichè: «Non posso mangiarle (in siciliano crocchè sono le croquetes di patate), mi fanno male». E poi, spazientito: «Io sono in discontinuità con tutti i governi siciliani che mi hanno preceduto, Lombardo compreso. Con me si cambia musica». E saranno lacrime e sangue, visto che vuol far fuori qualche dirigente superpagato.
Al comitato di via Mazzini è festa. Si va di ovazione in ovazione, anche col rischio di farsi male, come succede a un neo deputato lanciato in aria che dà una capocciata sul tetto. Cento passi più in là, in via Libertà, c'è la mestizia, il comitato di Nello Musumeci. Il grande sconfitto arriva intorno alle 19: «Il Pdl in queste settimane non si è fatto mancare niente - dice Musumeci - ma la Sicilia è davvero la terra dei gattopardi, ha vinto la stessa maggioranza di Lombardo. Gli auguro buon lavoro ma con me è stato scorretto, non lo chiamerò». Il buon lavoro, a Crocetta, lo manda Fitch, che ha declassato la Sicilia per il suo debito abissale. Auguri, governatore Crocetta.

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