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domenica 28 aprile 2013

184) FINALMENTE CI SIAMO

A PIU’ DI DUE MESI DALLE ELEZIONI FINALMENTE SI E’ INSEDIATO IL NUOVO GOVERNO PRESIEDUTO DAL DEMOCRATICO ENRICO LETTA. E’ UN GOVERNISIMO FORMATO DA PD, PDL, SC (UNA SORTA DI GRANDISSIMA DC), IL QUALE SI OCCUPERA’ DEI PROVVEDIMENTI PIU’ URGENTI PER L’ITALIA E POI SI TORNERA’ AL VOTO.
 

In questo anno dagli eventi anomali e insoliti (il nuovo Papa col vecchio in vita, la rielezione del Presidente della Repubblica) è giunta l’ora anche per il governissimo Pd – Pdl che è stato da poco varato: la rielezione di Napolitano ha contribuito enormemente a questa circostanza curiosa. Il “grande vecchio” ha bacchettato tutti affermando: “mi avete rivoluto? Bene, ma ora vi adatterete alle mie condizioni!” Tutto sommato era l’unica soluzione possibile; Bersani per qualche settimana aveva provato ad inseguire Beppe Grillo e rifiutava a priori l’alleanza col Pdl. Grillo non voleva Bersani: l’unica soluzione rimasta era il ritorno al voto entro 50 giorni. Ciò sarebbe stato incredibilmente ridicolo. Tutti ancora non si riprendono dalla combattutissima contesa elettorale del febbraio scorso e non hanno più energie, quindi hanno sotterrato le asce di guerra, preferendo unirsi per affrontare i provvedimenti più urgenti per la nostra nazione: crescita economica, occupazione, riduzione delle misure di austerità e delle tasse per i cittadini, ridimensionamento dei costi della politica e dei parlamentari, nuova legge elettorale. Il nuovo governo guidato dal democratico Enrico Letta farà tesoro dell’esperienza fallimentare del governo dei tecnici, troppo germanocentrico, incentrato sulle misure austere che bloccano la crescita, e cambierà direzione. È stato un bene per l’Italia che Monti avesse deciso di schierarsi e scendere in campagna elettorale, così, dopo la bocciatura elettorale, tutti si sono resi conto dei suoi fallimenti, il Capo dello Stato compreso, che era stato il suo principale sponsor e protettore. Se il Capo del Governo uscente avesse deciso di rimanere fuori dalla contesa elettorale, probabilmente ce lo saremmo ritrovato ancora tra i piedi.



Quello di Enrico Letta è un nome azzeccato: vuoi perché è uno dei meno estremisti del Pd, vuoi perché è nipote di Gianni, stretto collaboratore di Berlusconi, e vuoi perché è un giovane promettente, senza grilli per la testa, ragionevole, non parla a vanvera e non dice parole vuote; ogni riferimento a Matteo Renzi (che farebbe meglio ad occuparsi a tempo pieno della città di cui è sindaco) è puramente casuale. Le frange più estreme del Pd e del Pdl sono ai margini di questo esecutivo e lo appoggiano malvolentieri; le fazioni più moderate, più centriste, dei due grandi partiti sono dentro insieme alla Scelta Civica di Monti: è tornata una grande ed improvvisata Democrazia Cristiana. Staremo in finestra e vedremo cosà accadrà: se si tratterà di un governo a temine, della durata di un anno, al massimo due, per affrontare i problemi più urgenti, nulla in contrario; se poi il Partito Democratico insisterà con le “sue priorità” allora sarà meglio far saltare tutto. Le vere urgenze, promesse dal Pdl in campagna elettorale sono: l’abolizione dell’Imu sulla prima casa e la restituzione di quelle pagata lo scorso anno; se gli altri faranno le orecchie da mercante la stabilità di questo strano esecutivo sarà messa a rischio. Tutto sommato è sempre meglio il governissimo col Pdl dentro, piuttosto che un governo PdSel o PdM5s. Alfano (Ministro dell’Interno e Vicepresidente del Consiglio), Quagliarello (Ministro delle Riforme Istituzionali), Lupi (Ministro delle infrastrutture e dei trasporti), Lorenzin (Ministro della Salute), De Girolamo (Ministro Agricoltura) sono i cinque esponenti del Partito del Popolo delle Libertà dentro l’esecutivo Letta: i loro elettori hanno la massima fiducia in loro e sperano che non li deluderanno. Per il resto il Partito Democratico ha 10 esponenti nel nuovo governo, Scelta Civica ne ha 2, Radicali e Udc hanno un rappresentante ciascuno e gli indipendenti sono 4. Buon lavoro a tutti ed attenzione a non fallire ancora, sennò la prossima volta il Movimento Cinque Stelle di Beppe Grillo prenderà il 50% delle preferenze: allora si che saremo tutti rovinati; le sceneggiate di quel movimento e del suo buffo capo di ora, assieme alla paralisi che ha causato in queste settimane, è soltanto l’antipasto rispetto a ciò che ci attenderà. Gli altri grandi – medi partiti che faranno opposizione insieme al M5s saranno il Sel di Vendola, che ha rotto col Pd, e forse la Lega Nord, la quale ha detto ni al governo. Questa operazione della “grande coalizione” è un’ennesima vittoria del Popolo della Libertà e del suo “padre nobile”: speriamo che in futuro continueranno a darli entrambi per spacciati, per finiti.

domenica 21 aprile 2013

183) RICONFERMATO PRESIDENTE GIORGIO NAPOLITANO

GIORGIO NAPOLITANO, IL COMUNISTA AMATO E STIMATO DA TUTTI, E' STATO RICHIAMATO IN FRETTA E FURIA DAI PARTITI PER L’IMPOSSIBILITA’ DI ELEGGERE UN DEGNO SUCCESSORE. IN SETTE ANNI HA GUADAGNATO LA FIDUCIA  DEI VECCHI AVVERSARI: NON ERA MAI ACCADUTO A NESSUN SUO PREDECESSORE.



A quasi 88 anni Giorgio Napolitano ha accettato, vista l’insistenza dei partiti politici, ad essere rieletto Presidente della Repubblica: nessun suo predecessore era mai stato riconfermato dopo un settennato. Sono felice di questa decisione: l’unico neo è che per l’età avanzatissima difficilmente potrà resistere altri sette anni. L’elezione alla Presidenza della Repubblica è paragonabile al conclave per le elezioni dei pontefici, con una sola differenza: avviene tutto alla luce del sole. In entrambi i casi c’è bisogno di trovare delle personalità secondarie in grado di far convergere i voti delle fazioni rivali ed in lotta tra loro. Gli uomini dotati di carisma, capi e trascinatori, mai e poi mai potranno mettere d’accordo tutti. Ad esempio la proposta di far eleggere Prodi scatena grandi rivolte da parte degli avversari, lo stesso potrebbe avvenire per Berlusconi. Se poi a maggioranza si volesse insistere dal 4° scrutinio su un candidato politico forte del proprio schieramento c’è libertà di farlo, ma la cosa dividerà e non unirà: il Capo dello Stato dovrebbe essere il Presidente di tutti. Nel 1992 gli uomini forti della Dc per la più alta carica dello stato furono Forlani e Andreotti: il primo non passò per pochi voti, il secondo non fu più proponibile dopo gli attentati mortali mafiosi al giudice Falcone; gli strataggemmi cambiarono e si cercò un candidato democristiano istituzionale in grado di unire e dialogare con le opposizioni. In questi casi è la maggioranza a negoziare con l’opposizione, quest’ultima è costretta ad accettare un candidato “meno peggio” dell’altra parte.


È sempre la sinistra ad avere il coltello dalla parte del manico quando c’è l’elezione del Presidente della Repubblica. Nel 1999 il nome del tecnico indipendente Carlo Azeglio Ciampi raccolse grandi consensi, tanto che fece subito centro. Quest’anno al 1° scrutinio era stato scelto Franco Marini del Pd: un nome che avrebbe dovuto unire, ma è stato boicottato dalle ali più estreme della sinistra. Per la sinistra clamorosa è stata la bocciatura di Prodi, che avrebbe dovuto essere eletto a colpi di maggioranza: ci sono stati ben 100 parlamentari di sinistra franchi tiratori, o perché guardavano a Beppe Grillo (che vuole solo sfasciare e non li vuole) o perché qualche cattolico voleva vendicare Marini. La vicenda ha suscitato un terremoto politico all’interno del Partito Democratico con dimissioni di massa dei propri dirigenti. Anche le diverse anime, di diversa provenienza, nel Pd sono implose: sembrava che tutto filasse liscio e soltanto nel Popolo delle Libertà ci fossero dei conflitti tra ex An e ex FI. Così il Pdl torna in carreggiata, con i problemi dall’altra parte e anche con la riconferma di Napolitano. Sette anni fa Napolitano, il più a destra della sinistra, preoccupava gli avversari: si aspettava che fosse peggiore e più fazioso di Scalfaro e Ciampi. Così non è stato, perché egli è stato il migliore e il più imparziale dei tre, tanto da guadagnarsi la fiducia e la stima della destra, nonostante la forzatura per l’imposizione del Governo Monti. A larghe intese e a maggioranza non si è riusciti a trovare un successore, allora tutti sono stati costretti a supplicarlo di fare gli “straordinari”, ma alle sue condizioni. Mai nelle storia della Repubblica un presidente era mai stato rieletto: la rielezione in casi normali è impensabile ed irreale, se lui è riuscito nell’impresa ha dimostrato di avere delle doti superlative e straordinarie. E' divenuto un punto di riferimento, non solo per i politici anche per la gente comune. Per popolarità ha superato perfino Pertini, che fu il Presidente più amato. Re Giorgio (chiamato così per la somiglianza all’ultimo Re d’Italia: Umberto II di Savoia) continuerà a regnare sull’Italia.


ELENCO DEI PRESIDENTI E NUMERI DI SCRUTINI PER LA LORO ELEZIONE

ENRICO DE NICOLA (1946 1° scrutinio)
LUIGI EINAUDI (1948 4° scrutinio)
GIOVANNI GRONCHI (1955 4° scrutinio)
ANTONIO SEGNI (1962 9° scrutinio)
GIUSEPPE SARAGAT (1964 21° scrutinio )
GIOVANNI LEONE (1971 23° scrutinio)
SANDRO PERTINI (1978 16° scrutinio)
FRANCESCO COSSIGA (1985 1° scrutinio )
OSCAR L. SCALFARO (1992 16° scrutinio)
CARLO A. CIAMPI (1999 1° scrutinio)
GIORGIO NAPOLITANO (2006 4° scrutinio, 2013 6° scrutinio)

martedì 16 aprile 2013

182) IL ROGO DI PRIMAVALLE DI 40 ANNI FA

Primavalle: dopo 40 anni il rogo brucia ancora

Per la morte dei fratelli Stefano e Virgilio Mattei nessuno ha mai pagato

Le parole di Giampaolo, il più piccolo della famiglia: "c'è rimasta solo la rabbia. Quella non ce la possono togliere"
La notte del 16 aprile del '73 un commando di Potere Operaio composto da Martino Clavo, Manlio Grillo, e Achille Lollo versa cinque litri di benzina sotto la porta della casa popolare dove vive il segretario (operaio) del MSI di quartiere con i suoi sei figli. Due di loro muoiono arsi vivi

“Le sedi dell’Msi si chiudono con il fuoco con dentro i fascisti, sennò è troppo poco”
Questo era lo slogan della sinistra extraparlamentare, slogan sicuramente pronunciato anche quella maledetta notte del 16 aprile del 1973.
Quartiere popolare di Primavalle, periferia romana. Lì vive la famiglia Mattei, in via Bibbiena 6, per la precisione. Mario Mattei, il capofamiglia, ex combattente della Rsi, adesso operaio imbianchino, è il segretario della sezione dell’Msi del suo quartiere, la “Giarabub”.
È nato a Roma il primo gennaio del 1926, figlio di un operaio. Nel 1951 si sposa con Annamaria Mecconi, una ragazza semplice, di Primavalle, che per “arrotondare” fa la donna di servizio. Lo dice con orgoglio: “di quel lavoro andavo fiera”. Sono queste le parole della donna, ancora oggi. I due hanno sei figli. Mario, per tutti, è un uomo buono che “non farebbe mai male a nessuno”. E anche i camerati, secondo la testimonianza di Anna Schiaoncin, moglie di Marcello, attivista del Msi di Primavalle, “dicevano che era troppo buono e troppo democratico e di essere contrario alla violenza”. Perché lui, Mario, diceva sempre ‘no’ quando lo volevano coinvolgere in qualche azione contro i “rossi”, che pure prendevano spesso di mira quelli della “Giarabub”.
È la notte tra il 15 e il 16 aprile 1973. Sono le due e un quarto del mattino, ma le luci nell’appartamento di Via Bibbiena 6, sono ancora accese. Così Achille Lollo, Marino Clavo e Manlio Grillo, i tre esponenti di Potere Operaio, Brigata Tanas per la precisione, decidono di fare un altro giro in macchina. Stanno per mettere in atto uno degli attentati più infami di tutti gli anni di piombo. 
La Brigata Tanas è un piccolo gruppo semiclandestino, interno a PotOp, a comporla, sembra siano soltanto Lollo, Clavo, Grillo e qualcun altro. Si tratta di una squadra di azione militare e illegale, definita da molti “violenta, oltranzista e assai influenzata da una sostanziale simpatia per le BR”. Un odio cieco e feroce verso i fascisti anima i componenti del gruppetto. Un odio già rivendicato, pochi mesi prima del rogo, con una bomba nella sezione “Giarabub”. 
Alle tre meno un quarto, Lollo e Clavo entrano nella palazzina. “Protetti” dal buio della notte arrivano dietro la porta di casa dei Mattei. È li che si sta per consumare l’atto più vile, mentre la famiglia si era messa a dormire. Uno di loro versa circa cinque litri di benzina sotto la porta della casa, un altro tiene inclinato un ripiano in modo che il combustibile filtri all’interno dell’alloggio. Infine, i due accendono una miccia e scappano. Ad aspettarli, in macchina,  c’è Grillo. È il “palo”. Una vampata, un’esplosione, e quando i familiari che occupano l’appartamento si svegliano e aprono la porta, il disastro è ormai compiuto. La cubatura del casermone popolare crea un effetto di aspirazione, la tromba delle scale si trasforma in una cappa tirante e l’appartamento in un camino di combustione. Quando i Mattei si svegliano e aprono la porta sono avvolti dal fumo e dalle fiamme. È l’inferno più totale. Mario Mattei, si salva gettandosi da una finestra, mamma Annamaria, miracolosamente fugge attraverso la porta di casa portando con sé il figlio più piccolo, Giampaolo, di soli tre anni e Antonella di 9. E gli  altri? Lucia, 15 anni, si getta dal balconcino del secondo piano, presa al volo dal padre; Silvia, 19 , si butta invece dalla veranda della cucina. Si romperà due costole e tre vertebre, ma si salva. Per gli altri due fratelli Virgilio, 22 anni e Stefano, di soli 8, non c’è scampo. Restano intrappolati tra le fiamme, morendo carbonizzati. 
“Buttati, Virgilio, buttati!”. Il primo grido, quando tutto inizia a precipitare verso la fine, è quello del padre Mario. Le fiamme stanno ormai divorando tutto l’appartamento. Il grido diventa una successione di appelli scomposti, invocazioni, cori disperati. Virgilio non ce la fa più, è stremato. Abbraccia il fratellino Stefano, cerca di proteggerlo. Ma alla fine non può più resistere, e si arrende (tratta da “Cuori Neri” di Luca Telese).
Un fotografo, Antonio Monteforte, immortala Virgilio appoggiato al davanzale della finestra, agonizzante. Quella macabra immagine diventerà il simbolo della tragedia. Stefano e  Virgilio. Due fratelli,  uno con il braccio sulle spalle dell’altro quasi a proteggersi a vicenda, aspettando  una morte atroce, quanto inevitabile.
In strada, tutto il quartiere assiste attonito a quella tragedia. Alla morte dei due fratelli. Arrivano polizia e vigili del fuoco. Nell’aria si sente  l’odore acre del fumo e della carne bruciata. Un capannello di persone, assiepato nel cortile di un palazzo, rivolge lo sguardo verso l’alto in direzione di una finestra aperta. Il muro tutto intorno annerito dalle fiamme che fino a pochi minuti prima ardevano alte. Nel cortile, intanto, mentre ancora i pompieri lottano per spegnere le fiamme, viene trovato il messaggio di rivendicazione: è composto da diversi fogli di carta a quadretti, sigillati uno all’altro con il nastro adesivo. “Brigata Tanas Guerra di classe- morte ai fascisti- la sede del Msi, Mattei e Schiavoncino (i dirigenti della locale sezione missina) colpiti  dalla giustizia proletaria”. Un messaggio agghiacciante.
Secondo le testimonianze di tal Aldo Speranza, considerato dagli inquirenti un “doppiogiochista”, spesso ricattato per debolezza, Lollo andò da lui più di una volta per chiedergli l’indirizzo, il piano e l’abitazione della famiglia Mattei. E si recò da lui, insieme a Clavo e Grillo, anche la sera dell’eccidio, verso le 22. I motivi di quella visita ancora oggi non sono chiari. “’Ti siamo venuti a trovare’, mi dissero , presero il caffè e andarono via”.
Poi, in una perquisizione  a casa di Lollo gli inquirenti trovano un foglio con i nomi dei Mattei e di altri militanti Msi. “Non l’ho scritto io”. Si difenderà il giovane. “Bisogna impedire ai fascisti qualsiasi movimento (…)Dobbiamo realizzare non una, ma dieci, cento Piazzale Loreto”,  si legge in un altro pezzo di carta, ritrovato sempre a casa di Lollo. 
Pochi giorni dopo la strage (il 18 aprile) Achille Lollo, a fronte degli indizi e riscontri raccolti sulla sua colpevolezza, viene arrestato. Gli  altri due componenti della Brigata Tanas, si danno alla latitanza in Svizzera. Ma negli ambienti di Potere Operaio, i  dirigenti condannano l’episodio e si dicono all’oscuro di quanto avvenuto. Da qui scatta la farneticante ipotesi della “faida interna”, secondo la quale l’incendio sarebbe opera di “un regolamento di conti tra fascisti”. Una  tesi che verrà sostenuta anche dalla difesa degli indagati in sede di dibattimento. Siamo davvero all’inverosimile. 
Delirante Il titolo del “Manifesto”, che quattro giorni dopo titola “per una montatura fallita, un delitto orrendo, Primavalle”, avanzando l'ipotesi di una messinscena pensata per incolpare la sinistra, poi tragicamente degenerata.
Nel libro “Primavalle, incendio a porte chiuse”, si cerca addirittura di infangare la figura di Virgilio Mattei, dipinto come “un feroce anticomunista, disposto a tutto per contestare l’avanzata del comunismo”. 
I compagni dovevano coprire l’infame attacco. Le vittime diventate i loro stessi carnefici. Ma non si ricorda mai che, Virgilio, aveva appena 22 anni. Un diploma da ragioniere ed il sogno di trovare un lavoro sicuro, magari alla Sip, dove aveva fatto domanda per essere assunto. Per il concorso studiava giorno e notte. Era un ragazzo tranquillo, Virgilio, uno con la testa sulle spalle e senza alcuna attitudine per la violenza. In sezione, al Msi, ci andava insieme ai genitori, quasi fosse un rituale di famiglia, non certo perché nutriva un feroce odio contro i “compagni”. Ma la verità, come sempre, interessa poco quando si tratta di giustificare un atto criminale come il Rogo di Primavalle.
In quegli anni l’impunità per i rossi era garantita, la latitanza dei colpevoli quasi giustificata, e ricordate? “uccidere un fascista non è reato”.
Ma almeno sul piccolo Stefano, nessuno, ovviamente può inventarsi storie. 8 anni, “un ragazzo allegro”, dice il suo maestro. Sul suo banco vuoto, il giorno dopo la sua morte, i suoi compagni di classe avevano deposto un mazzo di fiori ed acceso un cero. Di lui, certo, non si può dire che fosse un “feroce anticomunista”.
Giampaolo Mattei ancora oggi ricorda: “Noi con la destra extraparlamentare non c’entravamo nulla. Non eravamo né di Avanguardia Nazionale, né di Ordine Nuovo. Né tantomeno rautiani. La mia famiglia era missina ed eravamo legati ad Almirante. Tutto qui”.
“Ai funerali l’emozione è enorme. Una folla spontanea, un mare di gente silenziosa. Ammassati sui muri, sulle gibbosità del terreno, sui balconi, persino sui rifiuti. Erano quasi in cinquemila, venuti dal Tiburtino, dal Tuscolano, da Trastevere, da ogni angolo di Roma. Un funerale ‘povero, spontaneo e popolare’. (tratto dal Il Messaggero, aprile 1973).
Tra tutti i morti ammazzati negli anni di piombo, l'omicidio dei fratelli Mattei ha un suo primato per i tanti silenzi, le doppie verità e le scelleratezze della stampa “indipendente”; forse perché l'ideologia dominante del tempo trovò difficile digerire il paradosso del rovesciamento delle parti tra vittime proletarie e carnefici borghesi.
Lo sintetizza Luca Telese nel suo libro "Cuori Neri" . “Tutti i cliché correnti nell'immaginario della sinistra vengono d'un tratto ribaltati (...) le vittime sono di destra, poveri sottoproletari di borgata (...), gli indiziati sono giovani benestanti o addirittura ricchi. E  Il loro ritrovo abituale è la fastosa piazza di Campo de' fiori nel cuore di Roma”.
“I proletari son pronti alla lotta, fame o lavoro non vogliono più, non c’è da perdere che le catene e c’è un intero mondo da guadagnare. Via dalle linee, prendiamo il fucile, forza compagni, alla guerra civile!”. Questo l’inno di Potere operaio, di cui facevano parte Lollo, Grillo e Clavo. Non di certo gente del popolo. Tutti figli della Roma bene e della buona borghesia che, autoproclamatisi difensori del popolo, hanno deciso di rendersi carnefici di chi proletario era davvero.
“Le sedi dell’Msi si chiudono con il fuoco con dentro i fascisti, sennò è troppo poco”

Questo era lo slogan della sinistra extraparlamentare, slogan sicuramente pronunciato anche quella maledetta notte del 16 aprile del 1973.
Quartiere popolare di Primavalle, periferia romana. Lì vive la famiglia Mattei, in via Bibbiena 6, per la precisione. Mario Mattei, il capofamiglia, ex combattente della Rsi, adesso operaio imbianchino, è il segretario della sezione dell’Msi del suo quartiere, la “Giarabub”.È nato a Roma il primo gennaio del 1926, figlio di un operaio. Nel 1951 si sposa con Annamaria Mecconi, una ragazza semplice, di Primavalle, che per “arrotondare” fa la donna di servizio. Lo dice con orgoglio: “di quel lavoro andavo fiera”. Sono queste le parole della donna, ancora oggi. I due hanno sei figli. Mario, per tutti, è un uomo buono che “non farebbe mai male a nessuno”. E anche i camerati, secondo la testimonianza di Anna Schiaoncin, moglie di Marcello, attivista del Msi di Primavalle, “dicevano che era troppo buono e troppo democratico e di essere contrario alla violenza”. Perché lui, Mario, diceva sempre ‘no’ quando lo volevano coinvolgere in qualche azione contro i “rossi”, che pure prendevano spesso di mira quelli della “Giarabub”.È la notte tra il 15 e il 16 aprile 1973. Sono le due e un quarto del mattino, ma le luci nell’appartamento di Via Bibbiena 6, sono ancora accese. Così Achille Lollo, Marino Clavo e Manlio Grillo, i tre esponenti di Potere Operaio, Brigata Tanas per la precisione, decidono di fare un altro giro in macchina. Stanno per mettere in atto uno degli attentati più infami di tutti gli anni di piombo. La Brigata Tanas è un piccolo gruppo semiclandestino, interno a PotOp, a comporla, sembra siano soltanto Lollo, Clavo, Grillo e qualcun altro. Si tratta di una squadra di azione militare e illegale, definita da molti “violenta, oltranzista e assai influenzata da una sostanziale simpatia per le BR”. Un odio cieco e feroce verso i fascisti anima i componenti del gruppetto. Un odio già rivendicato, pochi mesi prima del rogo, con una bomba nella sezione “Giarabub”. Alle tre meno un quarto, Lollo e Clavo entrano nella palazzina. “Protetti” dal buio della notte arrivano dietro la porta di casa dei Mattei. È li che si sta per consumare l’atto più vile, mentre la famiglia si era messa a dormire. Uno di loro versa circa cinque litri di benzina sotto la porta della casa, un altro tiene inclinato un ripiano in modo che il combustibile filtri all’interno dell’alloggio. Infine, i due accendono una miccia e scappano. Ad aspettarli, in macchina,  c’è Grillo. È il “palo”. Una vampata, un’esplosione, e quando i familiari che occupano l’appartamento si svegliano e aprono la porta, il disastro è ormai compiuto. La cubatura del casermone popolare crea un effetto di aspirazione, la tromba delle scale si trasforma in una cappa tirante e l’appartamento in un camino di combustione. Quando i Mattei si svegliano e aprono la porta sono avvolti dal fumo e dalle fiamme. È l’inferno più totale. Mario Mattei, si salva gettandosi da una finestra, mamma Annamaria, miracolosamente fugge attraverso la porta di casa portando con sé il figlio più piccolo, Giampaolo, di soli tre anni e Antonella di 9. E gli  altri? Lucia, 15 anni, si getta dal balconcino del secondo piano, presa al volo dal padre; Silvia, 19 , si butta invece dalla veranda della cucina. Si romperà due costole e tre vertebre, ma si salva. Per gli altri due fratelli Virgilio, 22 anni e Stefano, di soli 8, non c’è scampo. Restano intrappolati tra le fiamme, morendo carbonizzati. “Buttati, Virgilio, buttati!”. Il primo grido, quando tutto inizia a precipitare verso la fine, è quello del padre Mario. Le fiamme stanno ormai divorando tutto l’appartamento. Il grido diventa una successione di appelli scomposti, invocazioni, cori disperati. Virgilio non ce la fa più, è stremato. Abbraccia il fratellino Stefano, cerca di proteggerlo. Ma alla fine non può più resistere, e si arrende (tratta da “Cuori Neri” di Luca Telese).Un fotografo, Antonio Monteforte, immortala Virgilio appoggiato al davanzale della finestra, agonizzante. Quella macabra immagine diventerà il simbolo della tragedia. Stefano e  Virgilio. Due fratelli,  uno con il braccio sulle spalle dell’altro quasi a proteggersi a vicenda, aspettando  una morte atroce, quanto inevitabile.In strada, tutto il quartiere assiste attonito a quella tragedia. Alla morte dei due fratelli. Arrivano polizia e vigili del fuoco. Nell’aria si sente  l’odore acre del fumo e della carne bruciata. Un capannello di persone, assiepato nel cortile di un palazzo, rivolge lo sguardo verso l’alto in direzione di una finestra aperta. Il muro tutto intorno annerito dalle fiamme che fino a pochi minuti prima ardevano alte. Nel cortile, intanto, mentre ancora i pompieri lottano per spegnere le fiamme, viene trovato il messaggio di rivendicazione: è composto da diversi fogli di carta a quadretti, sigillati uno all’altro con il nastro adesivo. “Brigata Tanas Guerra di classe- morte ai fascisti- la sede del Msi, Mattei e Schiavoncino (i dirigenti della locale sezione missina) colpiti  dalla giustizia proletaria”. Un messaggio agghiacciante.Secondo le testimonianze di tal Aldo Speranza, considerato dagli inquirenti un “doppiogiochista”, spesso ricattato per debolezza, Lollo andò da lui più di una volta per chiedergli l’indirizzo, il piano e l’abitazione della famiglia Mattei. E si recò da lui, insieme a Clavo e Grillo, anche la sera dell’eccidio, verso le 22. I motivi di quella visita ancora oggi non sono chiari. “’Ti siamo venuti a trovare’, mi dissero , presero il caffè e andarono via”.Poi, in una perquisizione  a casa di Lollo gli inquirenti trovano un foglio con i nomi dei Mattei e di altri militanti Msi. “Non l’ho scritto io”. Si difenderà il giovane. “Bisogna impedire ai fascisti qualsiasi movimento (…)Dobbiamo realizzare non una, ma dieci, cento Piazzale Loreto”,  si legge in un altro pezzo di carta, ritrovato sempre a casa di Lollo. Pochi giorni dopo la strage (il 18 aprile) Achille Lollo, a fronte degli indizi e riscontri raccolti sulla sua colpevolezza, viene arrestato. Gli  altri due componenti della Brigata Tanas, si danno alla latitanza in Svizzera. Ma negli ambienti di Potere Operaio, i  dirigenti condannano l’episodio e si dicono all’oscuro di quanto avvenuto. Da qui scatta la farneticante ipotesi della “faida interna”, secondo la quale l’incendio sarebbe opera di “un regolamento di conti tra fascisti”. Una  tesi che verrà sostenuta anche dalla difesa degli indagati in sede di dibattimento. Siamo davvero all’inverosimile. Delirante Il titolo del “Manifesto”, che quattro giorni dopo titola “per una montatura fallita, un delitto orrendo, Primavalle”, avanzando l'ipotesi di una messinscena pensata per incolpare la sinistra, poi tragicamente degenerata.Nel libro “Primavalle, incendio a porte chiuse”, si cerca addirittura di infangare la figura di Virgilio Mattei, dipinto come “un feroce anticomunista, disposto a tutto per contestare l’avanzata del comunismo”. I compagni dovevano coprire l’infame attacco. Le vittime diventate i loro stessi carnefici. Ma non si ricorda mai che, Virgilio, aveva appena 22 anni. Un diploma da ragioniere ed il sogno di trovare un lavoro sicuro, magari alla Sip, dove aveva fatto domanda per essere assunto. Per il concorso studiava giorno e notte. Era un ragazzo tranquillo, Virgilio, uno con la testa sulle spalle e senza alcuna attitudine per la violenza. In sezione, al Msi, ci andava insieme ai genitori, quasi fosse un rituale di famiglia, non certo perché nutriva un feroce odio contro i “compagni”. Ma la verità, come sempre, interessa poco quando si tratta di giustificare un atto criminale come il Rogo di Primavalle.In quegli anni l’impunità per i rossi era garantita, la latitanza dei colpevoli quasi giustificata, e ricordate? “uccidere un fascista non è reato”.Ma almeno sul piccolo Stefano, nessuno, ovviamente può inventarsi storie. 8 anni, “un ragazzo allegro”, dice il suo maestro. Sul suo banco vuoto, il giorno dopo la sua morte, i suoi compagni di classe avevano deposto un mazzo di fiori ed acceso un cero. Di lui, certo, non si può dire che fosse un “feroce anticomunista”.Giampaolo Mattei ancora oggi ricorda: “Noi con la destra extraparlamentare non c’entravamo nulla. Non eravamo né di Avanguardia Nazionale, né di Ordine Nuovo. Né tantomeno rautiani. La mia famiglia era missina ed eravamo legati ad Almirante. Tutto qui”.“Ai funerali l’emozione è enorme. Una folla spontanea, un mare di gente silenziosa. Ammassati sui muri, sulle gibbosità del terreno, sui balconi, persino sui rifiuti. Erano quasi in cinquemila, venuti dal Tiburtino, dal Tuscolano, da Trastevere, da ogni angolo di Roma. Un funerale ‘povero, spontaneo e popolare’. (tratto dal Il Messaggero, aprile 1973).Tra tutti i morti ammazzati negli anni di piombo, l'omicidio dei fratelli Mattei ha un suo primato per i tanti silenzi, le doppie verità e le scelleratezze della stampa “indipendente”; forse perché l'ideologia dominante del tempo trovò difficile digerire il paradosso del rovesciamento delle parti tra vittime proletarie e carnefici borghesi.Lo sintetizza Luca Telese nel suo libro "Cuori Neri" . “Tutti i cliché correnti nell'immaginario della sinistra vengono d'un tratto ribaltati (...) le vittime sono di destra, poveri sottoproletari di borgata (...), gli indiziati sono giovani benestanti o addirittura ricchi. E  Il loro ritrovo abituale è la fastosa piazza di Campo de' fiori nel cuore di Roma”.“I proletari son pronti alla lotta, fame o lavoro non vogliono più, non c’è da perdere che le catene e c’è un intero mondo da guadagnare. Via dalle linee, prendiamo il fucile, forza compagni, alla guerra civile!”. Questo l’inno di Potere operaio, di cui facevano parte Lollo, Grillo e Clavo. Non di certo gente del popolo. Tutti figli della Roma bene e della buona borghesia che, autoproclamatisi difensori del popolo, hanno deciso di rendersi carnefici di chi proletario era davvero.

“Sono quarant’anni senza verità. Senza Giustizia”. Di quel 16 aprile del 1973, Giampaolo Mattei, il più piccolo della famiglia, non parla e non vuole parlare. Quello che rimane, quattro decenni dopo il “Rogo di Primavalle”, è solo il dolore misto alla rabbia. Tanta rabbia. “Quella è l’unica cosa che non ci possono togliere, la rabbia”. Rabbia nei confronti delle istituzioni che, negli anni, si sono dimenticate di lui, dei suoi fratelli e dei suoi genitori. Rabbia perché, per la morte di Virgilio e Stefano, nessuno ha mai pagato. 
Ma cominciamo dal principio.
Roma. 17 aprile 1973. Fin dal giorno successivo al rogo di via Bibbiena n.6 iniziano a girare voci strane, assurde, vergognose.  Le indagini degli inquirenti si rivolgono immediatamente verso gli esponenti di uno dei gruppi più attivi della sinistra extraparlamentare: Potere Operaio. PotOp per gli addetti ai lavori. Ma, perfino a sinistra, un atto così vile come dare fuoco alla casa di un proletario, un vero proletario, sembra troppo. L’attentato contro la famiglia Mattei, le morti di Virgilio e Stefano, arsi vivi sotto gli occhi dei genitori e dei quattro fratelli sopravvissuti, non può essere rivendicato. E, allora, la migliore delle soluzioni possibili è quella di insinuare l’assurda ipotesi “dell’autostrage”. Il meccanismo perfettamente innescato, comincia a girare. Il Manifesto del 17 aprile titola così: “Assassinati due figli del segretario del Msi di Primavalle in un incendio doloso. È un delitto nazista. Fermato un fascista”.  E ancora, sempre lo stesso giorno, non lontano da via Bibbiena, al Liceo Castelnuovo, viene pubblicato un volantino a firma congiunta di studenti e professori: “L’antifascismo non è mai stato e non è terrorismo. Solo una mente fascista poteva pensare di appiccare il fuoco ad un appartamento di un lotto proletario, in una casa in cui dormono dei bambini”. Il fatto che il volantino venga proprio dal Castelnuovo, non è un caso. Sì, perché quel liceo scientifico è lo stesso in cui si è diplomato uno dei membri più conosciuti di PotOp, Achille Lollo. Che viene arrestato appena due giorni dopo il rogo, il 18 aprile.
È proprio lui che si sta cercando di difendere. È Lollo che, insieme a Malio Grillo e Marino Clavo, quella notte, in via Bibbiena, nel cuore della Roma più proletaria, ha versato cinque litri di benzina sotto la porta dei Mattei, appiccando poi il fuoco. Eppure, è più comodo pensare che siano stati i fascisti. Sì, perché quella di Primavalle poteva essere una vera e propria strage. E le stragi, si sa, non uccidono gli avversari politici, ma solo gli innocenti. E, si sa altrettanto bene, le stragi le fanno solo “i fascisti”.
Le indagini vanno avanti per due anni. Lollo rimane in carcere. Grillo e Clavo si danno alla latitanza. Non verranno mai arrestati. Nel frattempo, la macchina costruita appositamente per discolpare il militante di Potere Operaio, va avanti imperterrita. Ad un anno dal rogo, nel 1974, viene redatto e pubblicato dalla Savelli nella sua collana “la nuova sinistra”, un opuscolo destinato a passare alla storia. Gli autori fanno parte tutti del “Collettivo Potere Operaio”, e l’agghiacciante titolo è “Primavalle: Incendio a porte chiuse”. È sufficiente leggere la delirante nota dell'editore, nella prima pagina dell’opuscolo, per rendersi conto di che razza di ipotesi si cerchi di tenere in piedi.
“La montatura sull'incendio di Primavalle non si presenta come il risultato di un meccanismo di provocazione premeditato a lungo e ad alto livello, tipo ‘strage di stato’, ‘Primavalle’ è piuttosto una trama costruita affannosamente, a ‘caldo’ da polizia e magistratura, un modo di sfruttare un'occasione per trasformare un ‘banale incidente’ o un oscuro episodio - nato e sviluppatosi nel vermiciaio della sezione fascista del quartiere - in un'occasione di rilancio degli opposti estremismi in un momento in cui la strage del giovedì nero con l'uccisione dell'agente Marino  (avvenuta a Milano 3 giorni prima) ne aveva vanificato la credibilità”. (Corsivo del redattore).
Un complotto costruito ad arte dalla polizia, così come dai giudici e magari con l’aiuto di qualche missino del quartiere, per incastrare i compagni innocenti. Questa la linea prescelta. Ma, se possibile, c’è di peggio. Sì, perché a scrivere la prefazione di “Primavalle: un incendio a porte chiuse” è proprio un giudice. Il pubblico ministero Marrone. Tra i fondatori di “Magistratura Democratica” (sic!).
E ancora non basta, perché a difendere Achille Lollo ed i suoi “compagni”-complici-latitanti, scendono in campo anche nomi importanti del panorama politico e culturale italiano.
Tantissimi gli intellettuali ed i giornali che si espongono per difendere gli imputati. Uno dei nomi più noti è quello di Franca Rame. Anche la moglie del futuro Premio Nobel, Dario Fo, si schiera fra le file degli innocentisti. Scrive addirittura una lettera a Lollo dicendogli: “Ti ho inserito nel Soccorso Rosso Militante. Riceverai denaro dai compagni, e lettere, così ti sentirai meno solo”. Dalla parte degli assassini, si schiera anche lo scrittore Alberto Moravia.
E ancora. L’editore e direttore de Il Messaggero, il più autorevole quotidiano romano, Alessandro Perrone si schiera apertamente dalla parte di Potere Operaio e dei suoi militanti. Non può fare altrimenti, d’altra parte, sua nipote, Diana (figlia di suo fratello Nando, coeditore del giornale romano) fa parte di PotOp e verrà in prima persona coinvolta nelle indagini sul Rogo di Primavalle.
Non basta. A favore di Lollo, Grillo e Clavo si schierano anche due “padri costituenti”: il senatore comunista  Umberto Terracini (già presidente dell'Assemblea Costituente) e il deputato socialista Riccardo Lombardi (anche lui membro della Costituente e capo storico della corrente di sinistra del PSI).
Stesso trattamento solidale, la stampa e l’intellighenzia faziosa di sinistra, non la riserva ai Mattei.
È in questo clima che, il 24 febbraio del 1975, si apre il processo contro i tre “compagni” di PotOp. In aula è presente solamente Lollo. Clavo e Grillo sono latitanti dal giorno del Rogo. La Pubblica Accusa, che ha rinviato a giudizio tutti e tre gli imputati, ha chiesto la condanna all’ergastolo. Il capo d’imputazione è uno solo, uguale per tutti: strage. 
Il 28 febbraio, in aula si sta tenendo la IV udienza per il Processo contro Lollo e i suoi. Una folla di compagni invasati si è radunata fuori dal Tribunale, a Piazzale Clodio. L’odio cieco nei confronti dei “fascisti” esplode in una feroce caccia al missino. A pagare, con la sua vita, sarà Mikis Mantakas. Lo studente greco ucciso senza pietà da Alvaro Lojacono a via Ottaviano e lasciato agonizzante sul marciapiede. 
Alla fine dell’istruttoria del processo di primo grado, il capo d’imputazione è derubricato e non di poco. Lollo e gli altri sono accusati solo di omicidio colposo ed incendio doloso. Vengono addirittura assolti tutti e tre per “insufficienza di prove”. Achille Lollo viene rimesso in libertà. Ha scontato due anni di carcere preventivo. Saranno anche gli unici che farà nella sua vita. Dopo l’assoluzione in primo grado si dà alla latitanza, prima in Svizzera, poi in Angola (dove conosce la sua futura moglie), infine in Brasile.
All’apertura del Processo d’Appello, nessuno dei tre imputati è presente. Vengono tutti condannati a 18 anni per omicidio preterintenzionale. Che, per chi non conosce il complesso linguaggio del diritto, vuole dire “oltre l’intenzione”. Non volevano uccidere, quindi, Lollo e i suoi. Hanno cosparso di benzina l’entrata della casa dei Mattei, con 8 persone dentro, che dormivano, (questa è una delle poche verità processuali), ma, nonostante questo, per i giudici, non volevano uccidere. La sentenza di secondo grado, è quella definitiva. Grillo apprende la notizia della condanna dal Nicaragua. Lollo è già a Rio De Janeiro. Per nessuno dei due è possibile l’estradizione. Clavo, non è mai stato rintracciato. 
Nel gennaio del 2005 arriva la decisione definitiva della Corte d’Appello di Roma. La pena, per i tre responsabili del rogo di Primavalle, è prescritta. Immediatamente dopo la decisione dei giudici, Achille Lollo decide di tornare in Italia e di dare la sua versione dei fatti. Per la prima volta, a modo suo, ammette le responsabilità nel Rogo. Coinvolgendo, trent’anni dopo, anche altri tre “compagni”: Elisabetta Lecco, Paolo Gaeta e proprio Diana Perrone. “L’attentato alla casa dei Mattei venne organizzato da sei persone. Gli altri tre sono liberi e tranquilli da 32 anni”. Queste le parole di Lollo al Corriere della Sera, nel febbraio del 2005. “Il 17 o il 18 aprile, due giorni dopo il Rogo, noi sei ci chiudemmo in una stanza appartata della sezione di Potere Operaio in via del Boschetto e facemmo un giuramento, lo chiamai ‘silenzio ideologico’, era il linguaggio di quei tempi. Nessuno di noi avrebbe aperto bocca per trent’anni. Né sui fatti, nè sui compagni coinvolti”. Alle accuse, arrivate dopo decenni di omertà, nessuno ha dato seguito, tantomeno la Procura della Repubblica di Roma. Eppure, siccome “le parole sono pietre”, come ricordava Primo Levi, è bene riportare il passaggio finale di quell’intervista ad uno dei responsabili –accertati- del Rogo di Primavalle. “Noi non abbiamo incendiato la casa dei Mattei. Ci sono troppe cose strane successe quella notte. Nessuno fece scivolare la benzina sotto la porta. L’innesco non si accese. E poi loro non vennero colti nel sonno, ci stavano aspettando”. Allora, non si capisce perché i Mattei avrebbero permesso che due dei loro figli venissero arsi vivi davanti ai loro occhi. “Non so cosa pensare. Ma non mi sto dichiarando innocente. (…) E se mi avessero dato otto anni invece che sedici, li avrei scontati senza scappare. Avevo fiducia che le indagini ricostruissero i fatti. Invece ho dovuto farlo io, dopo 32 anni”. Non chiede scusa alla famiglia Mattei, Achille Lollo. Non ammette nessuna colpa. E, ancora oggi, a distanza di quarant’anni, per la morte di Virgilio e Stefano, brutalmente uccisi a 22 e 8 anni, nessuno ha mai pagato. Anche se si sa chi sono stati i colpevoli.
“Io non perdono. Io non posso perdonare”, ha detto Annamaria Mattei, la mamma dei due fratelli morti il 16 Aprile del ‘73 a Primavalle. Sì, perché non può esserci perdono, quando non è stata fatta giustizia.

Paolo Signorelli e Micol Paglia (il Giornale d'Italia)


RICORDO DI TUTTI I MILITANTI MSI VITTIME DEL TERRORISMO

Han ballato sui loro corpi, han sputato sul loro nome, hanno scosso le loro tombe ma non li possono cancellare
E' una piazza piena di sogni, un'armata di cari amici, mille anime di caduti ma nel ricordo non li hanno uccisi
sono i giovani di Acca Larentia ed i ragazzi in camicia nera, i fratelli di Primavalle ed i martiri dell'Emilia

venerdì 5 aprile 2013

181) MAGDI CRISTIANO ALLAM LASCIA LA CHIESA

 

Perché me ne vado da questa Chiesa debole con l'islam


Cinque anni dopo aver ricevuto il battesimo in San Pietro da Benedetto XVI, l'annuncio dell'addio: troppo relativismo



Credo nel Gesù che ho amato sin da bambino, leggendolo nei Vangeli e vivificato da autentici testimoni - religiosi e laici cristiani - attraverso le loro opere buone, ma non credo più nella Chiesa. La mia conversione al cattolicesimo, avvenuta per mano di Benedetto XVI nella notte della Veglia Pasquale il 22 marzo 2008, la considero conclusa ora in concomitanza con la fine del suo papato.
Sono stati 5 anni di passione in cui ho toccato con mano la vicissitudine del vivere da cattolico salvaguardando nella verità e in libertà ciò che sostanzia l'essenza del mio essere persona come depositario di valori non negoziabili, di un'identità certa, di una civiltà di cui inorgoglirsi, di una missione che dà un senso alla vita.
La mia è una scelta estremamente sofferta, mentre guardo negli occhi Gesù e i tanti amici cattolici che proveranno amarezza e reagiranno con disapprovazione. C'è stata un'improvvisa accelerazione nel far maturare questa decisione di fronte alla realtà di due Papi, che per la prima volta nella Storia s'incontrano e si abbracciano, entrambi depositari di investitura divina, dal momento che il grande elettore è lo Spirito Santo che si manifesta attraverso i cardinali, entrambi successori di Pietro e vicari di Cristo anche a prescindere dalla decisione umana di dimettersi.
La Papalatria che ha infiammato l'euforia per Francesco I e ha rapidamente archiviato Benedetto XVI, è stata solo la goccia che ha fatto traboccare il vaso di un quadro complessivo di incertezze e dubbi sulla Chiesa che ho descritto correttamente e schiettamente già nel mio «Grazie Gesù» del 2008 e in «Europa Cristiana Libera» del 2009.
Se proprio Benedetto XVI denunciando la «dittatura del relativismo» mi aveva attratto e affascinato, la verità è che la Chiesa è fisiologicamente relativista. Il suo essere contemporaneamente Magistero universale e Stato secolare, ha fatto sì che la Chiesa da sempre accoglie nel suo seno un'infinità di comunità, congregazioni, ideologie, interessi materiali che si traducono nel mettere insieme tutto e il contrario di tutto. Così come la Chiesa è fisiologicamente globalista fondandosi sulla comunione dei cattolici in tutto il mondo, come emerge chiaramente dal Conclave. Ciò fa sì che la Chiesa assume posizioni ideologicamente contrarie alla Nazione come identità e civiltà da preservare, predicando di fatto il superamento delle frontiere nazionali. Come conseguenza la Chiesa è fisiologicamente buonista, mettendo sullo stesso piano, se non addirittura anteponendo, il bene altrui rispetto al bene proprio, compromettendo dalla radice il concetto di bene comune. Infine prendo atto che la Chiesa è fisiologicamente tentata dal male, inteso come violazione della morale pubblica, dal momento che impone dei comportamenti che sono in conflitto con la natura umana, quali il celibato sacerdotale, l'astensione dai rapporti sessuali al di fuori del matrimonio, l'indissolubilità del matrimonio, in aggiunta alla tentazione del denaro.


Ciò che più di ogni altro fattore mi ha allontanato dalla Chiesa è il relativismo religioso e in particolare la legittimazione dell'islam come vera religione, di Allah come vero Dio, di Maometto come vero profeta, del Corano come testo sacro, delle moschee come luogo di culto. È una autentica follia suicida il fatto che Giovanni Paolo II si spinse fino a baciare il Corano il 14 maggio 1999, che Benedetto XVI pose la mano sul Corano pregando in direzione della Mecca all'interno della Moschea Blu di Istanbul il 30 novembre 2006, mentre Francesco I ha esordito esaltando i musulmani «che adorano Dio unico, vivente e misericordioso». Sono invece convinto che, pur nel rispetto dei musulmani depositari al pari di tutte le persone dei diritti inalienabili alla vita, alla dignità e alla libertà, l'islam sia un'ideologia intrinsecamente violenta così come è stata storicamente conflittuale al suo interno e bellicosa al suo esterno. Ancor di più sono sempre più convinto che l'Europa finirà per essere sottomessa all'islam, così come è già accaduto a partire dal Settimo secolo alle altre due sponde del Mediterraneo, se non avrà la lucidità e il coraggio di denunciare l'incompatibilità dell'islam con la nostra civiltà e i diritti fondamentali della persona, se non metterà al bando il Corano per apologia dell'odio, della violenza e della morte nei confronti dei non musulmani, se non condannerà la sharia quale crimine contro l'umanità in quanto predica e pratica la violazione della sacralità della vita di tutti, la pari dignità tra uomo e donna, la libertà religiosa, infine se non bloccherà la diffusione delle moschee.
Sono contrario al globalismo che porta all'apertura incondizionata delle frontiere nazionali sulla base del principio che l'insieme dell'umanità deve concepirsi come fratelli e sorelle, che il mondo intero deve essere concepito come un'unica terra a disposizione di tutta l'umanità. Sono invece convinto che la popolazione autoctona debba legittimamente godere del diritto e del dovere di salvaguardare la propria civiltà e il proprio patrimonio.
Sono contrario al buonismo che porta la Chiesa a ergersi a massimo protettore degli immigrati, compresi - e soprattutto - i clandestini. Io sono per l'accoglienza con regole e la prima regola è che in Italia dobbiamo innanzitutto garantire il bene degli italiani, applicando correttamente l'esortazione di Gesù «ama il prossimo tuo così come ami te stesso».
Sono stati dei testimoni - coloro che fanno sì che la verità che affermano corrisponde alla fede in cui credono e si traduca nelle opere buone che compiono - a persuadermi della bontà, del fascino, della bellezza e della forza del cristianesimo come dimora naturale dei valori non negoziabili, dei binomi indissolubili di verità e libertà, fede e ragione, valori e regole. Ed è proprio nel momento in cui attorno a me viene sempre meno la presenza di testimoni autentici e credibili, in parallelo alla conoscenza approfondita del contesto cattolico di riferimento, che è vacillata la mia fede nella Chiesa.
Faccio questa scelta, nella sofferenza interiore e nella consapevolezza della disapprovazione che genererà nella patria del cattolicesimo, perché sento come imperativo il dovere morale di continuare ad essere coerente con me stesso e con gli altri nel nome del primato della verità e della libertà. Non mi sono mai rassegnato alla menzogna e non mi sono mai sottomesso alla paura. Continuerò a credere nel Gesù che ho sempre amato e a identificarmi orgogliosamente nel cristianesimo come la civiltà che più di altre avvicina l'uomo al Dio che ha scelto di diventare uomo e che più di altre sostanzia l'essenza della nostra comune umanità. Continuerò a difendere laicamente i valori non negoziabili della sacralità della vita, della centralità della famiglia naturale, della dignità della persona, della libertà religiosa. Continuerò ad andare avanti con la schiena dritta e a testa alta per dare il mio contributo alla rinascita valoriale e identitaria degli italiani. Lo farò da uomo integro nell'integralità della mia umanità.
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