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martedì 16 aprile 2013

182) IL ROGO DI PRIMAVALLE DI 40 ANNI FA

Primavalle: dopo 40 anni il rogo brucia ancora

Per la morte dei fratelli Stefano e Virgilio Mattei nessuno ha mai pagato

Le parole di Giampaolo, il più piccolo della famiglia: "c'è rimasta solo la rabbia. Quella non ce la possono togliere"
La notte del 16 aprile del '73 un commando di Potere Operaio composto da Martino Clavo, Manlio Grillo, e Achille Lollo versa cinque litri di benzina sotto la porta della casa popolare dove vive il segretario (operaio) del MSI di quartiere con i suoi sei figli. Due di loro muoiono arsi vivi

“Le sedi dell’Msi si chiudono con il fuoco con dentro i fascisti, sennò è troppo poco”
Questo era lo slogan della sinistra extraparlamentare, slogan sicuramente pronunciato anche quella maledetta notte del 16 aprile del 1973.
Quartiere popolare di Primavalle, periferia romana. Lì vive la famiglia Mattei, in via Bibbiena 6, per la precisione. Mario Mattei, il capofamiglia, ex combattente della Rsi, adesso operaio imbianchino, è il segretario della sezione dell’Msi del suo quartiere, la “Giarabub”.
È nato a Roma il primo gennaio del 1926, figlio di un operaio. Nel 1951 si sposa con Annamaria Mecconi, una ragazza semplice, di Primavalle, che per “arrotondare” fa la donna di servizio. Lo dice con orgoglio: “di quel lavoro andavo fiera”. Sono queste le parole della donna, ancora oggi. I due hanno sei figli. Mario, per tutti, è un uomo buono che “non farebbe mai male a nessuno”. E anche i camerati, secondo la testimonianza di Anna Schiaoncin, moglie di Marcello, attivista del Msi di Primavalle, “dicevano che era troppo buono e troppo democratico e di essere contrario alla violenza”. Perché lui, Mario, diceva sempre ‘no’ quando lo volevano coinvolgere in qualche azione contro i “rossi”, che pure prendevano spesso di mira quelli della “Giarabub”.
È la notte tra il 15 e il 16 aprile 1973. Sono le due e un quarto del mattino, ma le luci nell’appartamento di Via Bibbiena 6, sono ancora accese. Così Achille Lollo, Marino Clavo e Manlio Grillo, i tre esponenti di Potere Operaio, Brigata Tanas per la precisione, decidono di fare un altro giro in macchina. Stanno per mettere in atto uno degli attentati più infami di tutti gli anni di piombo. 
La Brigata Tanas è un piccolo gruppo semiclandestino, interno a PotOp, a comporla, sembra siano soltanto Lollo, Clavo, Grillo e qualcun altro. Si tratta di una squadra di azione militare e illegale, definita da molti “violenta, oltranzista e assai influenzata da una sostanziale simpatia per le BR”. Un odio cieco e feroce verso i fascisti anima i componenti del gruppetto. Un odio già rivendicato, pochi mesi prima del rogo, con una bomba nella sezione “Giarabub”. 
Alle tre meno un quarto, Lollo e Clavo entrano nella palazzina. “Protetti” dal buio della notte arrivano dietro la porta di casa dei Mattei. È li che si sta per consumare l’atto più vile, mentre la famiglia si era messa a dormire. Uno di loro versa circa cinque litri di benzina sotto la porta della casa, un altro tiene inclinato un ripiano in modo che il combustibile filtri all’interno dell’alloggio. Infine, i due accendono una miccia e scappano. Ad aspettarli, in macchina,  c’è Grillo. È il “palo”. Una vampata, un’esplosione, e quando i familiari che occupano l’appartamento si svegliano e aprono la porta, il disastro è ormai compiuto. La cubatura del casermone popolare crea un effetto di aspirazione, la tromba delle scale si trasforma in una cappa tirante e l’appartamento in un camino di combustione. Quando i Mattei si svegliano e aprono la porta sono avvolti dal fumo e dalle fiamme. È l’inferno più totale. Mario Mattei, si salva gettandosi da una finestra, mamma Annamaria, miracolosamente fugge attraverso la porta di casa portando con sé il figlio più piccolo, Giampaolo, di soli tre anni e Antonella di 9. E gli  altri? Lucia, 15 anni, si getta dal balconcino del secondo piano, presa al volo dal padre; Silvia, 19 , si butta invece dalla veranda della cucina. Si romperà due costole e tre vertebre, ma si salva. Per gli altri due fratelli Virgilio, 22 anni e Stefano, di soli 8, non c’è scampo. Restano intrappolati tra le fiamme, morendo carbonizzati. 
“Buttati, Virgilio, buttati!”. Il primo grido, quando tutto inizia a precipitare verso la fine, è quello del padre Mario. Le fiamme stanno ormai divorando tutto l’appartamento. Il grido diventa una successione di appelli scomposti, invocazioni, cori disperati. Virgilio non ce la fa più, è stremato. Abbraccia il fratellino Stefano, cerca di proteggerlo. Ma alla fine non può più resistere, e si arrende (tratta da “Cuori Neri” di Luca Telese).
Un fotografo, Antonio Monteforte, immortala Virgilio appoggiato al davanzale della finestra, agonizzante. Quella macabra immagine diventerà il simbolo della tragedia. Stefano e  Virgilio. Due fratelli,  uno con il braccio sulle spalle dell’altro quasi a proteggersi a vicenda, aspettando  una morte atroce, quanto inevitabile.
In strada, tutto il quartiere assiste attonito a quella tragedia. Alla morte dei due fratelli. Arrivano polizia e vigili del fuoco. Nell’aria si sente  l’odore acre del fumo e della carne bruciata. Un capannello di persone, assiepato nel cortile di un palazzo, rivolge lo sguardo verso l’alto in direzione di una finestra aperta. Il muro tutto intorno annerito dalle fiamme che fino a pochi minuti prima ardevano alte. Nel cortile, intanto, mentre ancora i pompieri lottano per spegnere le fiamme, viene trovato il messaggio di rivendicazione: è composto da diversi fogli di carta a quadretti, sigillati uno all’altro con il nastro adesivo. “Brigata Tanas Guerra di classe- morte ai fascisti- la sede del Msi, Mattei e Schiavoncino (i dirigenti della locale sezione missina) colpiti  dalla giustizia proletaria”. Un messaggio agghiacciante.
Secondo le testimonianze di tal Aldo Speranza, considerato dagli inquirenti un “doppiogiochista”, spesso ricattato per debolezza, Lollo andò da lui più di una volta per chiedergli l’indirizzo, il piano e l’abitazione della famiglia Mattei. E si recò da lui, insieme a Clavo e Grillo, anche la sera dell’eccidio, verso le 22. I motivi di quella visita ancora oggi non sono chiari. “’Ti siamo venuti a trovare’, mi dissero , presero il caffè e andarono via”.
Poi, in una perquisizione  a casa di Lollo gli inquirenti trovano un foglio con i nomi dei Mattei e di altri militanti Msi. “Non l’ho scritto io”. Si difenderà il giovane. “Bisogna impedire ai fascisti qualsiasi movimento (…)Dobbiamo realizzare non una, ma dieci, cento Piazzale Loreto”,  si legge in un altro pezzo di carta, ritrovato sempre a casa di Lollo. 
Pochi giorni dopo la strage (il 18 aprile) Achille Lollo, a fronte degli indizi e riscontri raccolti sulla sua colpevolezza, viene arrestato. Gli  altri due componenti della Brigata Tanas, si danno alla latitanza in Svizzera. Ma negli ambienti di Potere Operaio, i  dirigenti condannano l’episodio e si dicono all’oscuro di quanto avvenuto. Da qui scatta la farneticante ipotesi della “faida interna”, secondo la quale l’incendio sarebbe opera di “un regolamento di conti tra fascisti”. Una  tesi che verrà sostenuta anche dalla difesa degli indagati in sede di dibattimento. Siamo davvero all’inverosimile. 
Delirante Il titolo del “Manifesto”, che quattro giorni dopo titola “per una montatura fallita, un delitto orrendo, Primavalle”, avanzando l'ipotesi di una messinscena pensata per incolpare la sinistra, poi tragicamente degenerata.
Nel libro “Primavalle, incendio a porte chiuse”, si cerca addirittura di infangare la figura di Virgilio Mattei, dipinto come “un feroce anticomunista, disposto a tutto per contestare l’avanzata del comunismo”. 
I compagni dovevano coprire l’infame attacco. Le vittime diventate i loro stessi carnefici. Ma non si ricorda mai che, Virgilio, aveva appena 22 anni. Un diploma da ragioniere ed il sogno di trovare un lavoro sicuro, magari alla Sip, dove aveva fatto domanda per essere assunto. Per il concorso studiava giorno e notte. Era un ragazzo tranquillo, Virgilio, uno con la testa sulle spalle e senza alcuna attitudine per la violenza. In sezione, al Msi, ci andava insieme ai genitori, quasi fosse un rituale di famiglia, non certo perché nutriva un feroce odio contro i “compagni”. Ma la verità, come sempre, interessa poco quando si tratta di giustificare un atto criminale come il Rogo di Primavalle.
In quegli anni l’impunità per i rossi era garantita, la latitanza dei colpevoli quasi giustificata, e ricordate? “uccidere un fascista non è reato”.
Ma almeno sul piccolo Stefano, nessuno, ovviamente può inventarsi storie. 8 anni, “un ragazzo allegro”, dice il suo maestro. Sul suo banco vuoto, il giorno dopo la sua morte, i suoi compagni di classe avevano deposto un mazzo di fiori ed acceso un cero. Di lui, certo, non si può dire che fosse un “feroce anticomunista”.
Giampaolo Mattei ancora oggi ricorda: “Noi con la destra extraparlamentare non c’entravamo nulla. Non eravamo né di Avanguardia Nazionale, né di Ordine Nuovo. Né tantomeno rautiani. La mia famiglia era missina ed eravamo legati ad Almirante. Tutto qui”.
“Ai funerali l’emozione è enorme. Una folla spontanea, un mare di gente silenziosa. Ammassati sui muri, sulle gibbosità del terreno, sui balconi, persino sui rifiuti. Erano quasi in cinquemila, venuti dal Tiburtino, dal Tuscolano, da Trastevere, da ogni angolo di Roma. Un funerale ‘povero, spontaneo e popolare’. (tratto dal Il Messaggero, aprile 1973).
Tra tutti i morti ammazzati negli anni di piombo, l'omicidio dei fratelli Mattei ha un suo primato per i tanti silenzi, le doppie verità e le scelleratezze della stampa “indipendente”; forse perché l'ideologia dominante del tempo trovò difficile digerire il paradosso del rovesciamento delle parti tra vittime proletarie e carnefici borghesi.
Lo sintetizza Luca Telese nel suo libro "Cuori Neri" . “Tutti i cliché correnti nell'immaginario della sinistra vengono d'un tratto ribaltati (...) le vittime sono di destra, poveri sottoproletari di borgata (...), gli indiziati sono giovani benestanti o addirittura ricchi. E  Il loro ritrovo abituale è la fastosa piazza di Campo de' fiori nel cuore di Roma”.
“I proletari son pronti alla lotta, fame o lavoro non vogliono più, non c’è da perdere che le catene e c’è un intero mondo da guadagnare. Via dalle linee, prendiamo il fucile, forza compagni, alla guerra civile!”. Questo l’inno di Potere operaio, di cui facevano parte Lollo, Grillo e Clavo. Non di certo gente del popolo. Tutti figli della Roma bene e della buona borghesia che, autoproclamatisi difensori del popolo, hanno deciso di rendersi carnefici di chi proletario era davvero.
“Le sedi dell’Msi si chiudono con il fuoco con dentro i fascisti, sennò è troppo poco”

Questo era lo slogan della sinistra extraparlamentare, slogan sicuramente pronunciato anche quella maledetta notte del 16 aprile del 1973.
Quartiere popolare di Primavalle, periferia romana. Lì vive la famiglia Mattei, in via Bibbiena 6, per la precisione. Mario Mattei, il capofamiglia, ex combattente della Rsi, adesso operaio imbianchino, è il segretario della sezione dell’Msi del suo quartiere, la “Giarabub”.È nato a Roma il primo gennaio del 1926, figlio di un operaio. Nel 1951 si sposa con Annamaria Mecconi, una ragazza semplice, di Primavalle, che per “arrotondare” fa la donna di servizio. Lo dice con orgoglio: “di quel lavoro andavo fiera”. Sono queste le parole della donna, ancora oggi. I due hanno sei figli. Mario, per tutti, è un uomo buono che “non farebbe mai male a nessuno”. E anche i camerati, secondo la testimonianza di Anna Schiaoncin, moglie di Marcello, attivista del Msi di Primavalle, “dicevano che era troppo buono e troppo democratico e di essere contrario alla violenza”. Perché lui, Mario, diceva sempre ‘no’ quando lo volevano coinvolgere in qualche azione contro i “rossi”, che pure prendevano spesso di mira quelli della “Giarabub”.È la notte tra il 15 e il 16 aprile 1973. Sono le due e un quarto del mattino, ma le luci nell’appartamento di Via Bibbiena 6, sono ancora accese. Così Achille Lollo, Marino Clavo e Manlio Grillo, i tre esponenti di Potere Operaio, Brigata Tanas per la precisione, decidono di fare un altro giro in macchina. Stanno per mettere in atto uno degli attentati più infami di tutti gli anni di piombo. La Brigata Tanas è un piccolo gruppo semiclandestino, interno a PotOp, a comporla, sembra siano soltanto Lollo, Clavo, Grillo e qualcun altro. Si tratta di una squadra di azione militare e illegale, definita da molti “violenta, oltranzista e assai influenzata da una sostanziale simpatia per le BR”. Un odio cieco e feroce verso i fascisti anima i componenti del gruppetto. Un odio già rivendicato, pochi mesi prima del rogo, con una bomba nella sezione “Giarabub”. Alle tre meno un quarto, Lollo e Clavo entrano nella palazzina. “Protetti” dal buio della notte arrivano dietro la porta di casa dei Mattei. È li che si sta per consumare l’atto più vile, mentre la famiglia si era messa a dormire. Uno di loro versa circa cinque litri di benzina sotto la porta della casa, un altro tiene inclinato un ripiano in modo che il combustibile filtri all’interno dell’alloggio. Infine, i due accendono una miccia e scappano. Ad aspettarli, in macchina,  c’è Grillo. È il “palo”. Una vampata, un’esplosione, e quando i familiari che occupano l’appartamento si svegliano e aprono la porta, il disastro è ormai compiuto. La cubatura del casermone popolare crea un effetto di aspirazione, la tromba delle scale si trasforma in una cappa tirante e l’appartamento in un camino di combustione. Quando i Mattei si svegliano e aprono la porta sono avvolti dal fumo e dalle fiamme. È l’inferno più totale. Mario Mattei, si salva gettandosi da una finestra, mamma Annamaria, miracolosamente fugge attraverso la porta di casa portando con sé il figlio più piccolo, Giampaolo, di soli tre anni e Antonella di 9. E gli  altri? Lucia, 15 anni, si getta dal balconcino del secondo piano, presa al volo dal padre; Silvia, 19 , si butta invece dalla veranda della cucina. Si romperà due costole e tre vertebre, ma si salva. Per gli altri due fratelli Virgilio, 22 anni e Stefano, di soli 8, non c’è scampo. Restano intrappolati tra le fiamme, morendo carbonizzati. “Buttati, Virgilio, buttati!”. Il primo grido, quando tutto inizia a precipitare verso la fine, è quello del padre Mario. Le fiamme stanno ormai divorando tutto l’appartamento. Il grido diventa una successione di appelli scomposti, invocazioni, cori disperati. Virgilio non ce la fa più, è stremato. Abbraccia il fratellino Stefano, cerca di proteggerlo. Ma alla fine non può più resistere, e si arrende (tratta da “Cuori Neri” di Luca Telese).Un fotografo, Antonio Monteforte, immortala Virgilio appoggiato al davanzale della finestra, agonizzante. Quella macabra immagine diventerà il simbolo della tragedia. Stefano e  Virgilio. Due fratelli,  uno con il braccio sulle spalle dell’altro quasi a proteggersi a vicenda, aspettando  una morte atroce, quanto inevitabile.In strada, tutto il quartiere assiste attonito a quella tragedia. Alla morte dei due fratelli. Arrivano polizia e vigili del fuoco. Nell’aria si sente  l’odore acre del fumo e della carne bruciata. Un capannello di persone, assiepato nel cortile di un palazzo, rivolge lo sguardo verso l’alto in direzione di una finestra aperta. Il muro tutto intorno annerito dalle fiamme che fino a pochi minuti prima ardevano alte. Nel cortile, intanto, mentre ancora i pompieri lottano per spegnere le fiamme, viene trovato il messaggio di rivendicazione: è composto da diversi fogli di carta a quadretti, sigillati uno all’altro con il nastro adesivo. “Brigata Tanas Guerra di classe- morte ai fascisti- la sede del Msi, Mattei e Schiavoncino (i dirigenti della locale sezione missina) colpiti  dalla giustizia proletaria”. Un messaggio agghiacciante.Secondo le testimonianze di tal Aldo Speranza, considerato dagli inquirenti un “doppiogiochista”, spesso ricattato per debolezza, Lollo andò da lui più di una volta per chiedergli l’indirizzo, il piano e l’abitazione della famiglia Mattei. E si recò da lui, insieme a Clavo e Grillo, anche la sera dell’eccidio, verso le 22. I motivi di quella visita ancora oggi non sono chiari. “’Ti siamo venuti a trovare’, mi dissero , presero il caffè e andarono via”.Poi, in una perquisizione  a casa di Lollo gli inquirenti trovano un foglio con i nomi dei Mattei e di altri militanti Msi. “Non l’ho scritto io”. Si difenderà il giovane. “Bisogna impedire ai fascisti qualsiasi movimento (…)Dobbiamo realizzare non una, ma dieci, cento Piazzale Loreto”,  si legge in un altro pezzo di carta, ritrovato sempre a casa di Lollo. Pochi giorni dopo la strage (il 18 aprile) Achille Lollo, a fronte degli indizi e riscontri raccolti sulla sua colpevolezza, viene arrestato. Gli  altri due componenti della Brigata Tanas, si danno alla latitanza in Svizzera. Ma negli ambienti di Potere Operaio, i  dirigenti condannano l’episodio e si dicono all’oscuro di quanto avvenuto. Da qui scatta la farneticante ipotesi della “faida interna”, secondo la quale l’incendio sarebbe opera di “un regolamento di conti tra fascisti”. Una  tesi che verrà sostenuta anche dalla difesa degli indagati in sede di dibattimento. Siamo davvero all’inverosimile. Delirante Il titolo del “Manifesto”, che quattro giorni dopo titola “per una montatura fallita, un delitto orrendo, Primavalle”, avanzando l'ipotesi di una messinscena pensata per incolpare la sinistra, poi tragicamente degenerata.Nel libro “Primavalle, incendio a porte chiuse”, si cerca addirittura di infangare la figura di Virgilio Mattei, dipinto come “un feroce anticomunista, disposto a tutto per contestare l’avanzata del comunismo”. I compagni dovevano coprire l’infame attacco. Le vittime diventate i loro stessi carnefici. Ma non si ricorda mai che, Virgilio, aveva appena 22 anni. Un diploma da ragioniere ed il sogno di trovare un lavoro sicuro, magari alla Sip, dove aveva fatto domanda per essere assunto. Per il concorso studiava giorno e notte. Era un ragazzo tranquillo, Virgilio, uno con la testa sulle spalle e senza alcuna attitudine per la violenza. In sezione, al Msi, ci andava insieme ai genitori, quasi fosse un rituale di famiglia, non certo perché nutriva un feroce odio contro i “compagni”. Ma la verità, come sempre, interessa poco quando si tratta di giustificare un atto criminale come il Rogo di Primavalle.In quegli anni l’impunità per i rossi era garantita, la latitanza dei colpevoli quasi giustificata, e ricordate? “uccidere un fascista non è reato”.Ma almeno sul piccolo Stefano, nessuno, ovviamente può inventarsi storie. 8 anni, “un ragazzo allegro”, dice il suo maestro. Sul suo banco vuoto, il giorno dopo la sua morte, i suoi compagni di classe avevano deposto un mazzo di fiori ed acceso un cero. Di lui, certo, non si può dire che fosse un “feroce anticomunista”.Giampaolo Mattei ancora oggi ricorda: “Noi con la destra extraparlamentare non c’entravamo nulla. Non eravamo né di Avanguardia Nazionale, né di Ordine Nuovo. Né tantomeno rautiani. La mia famiglia era missina ed eravamo legati ad Almirante. Tutto qui”.“Ai funerali l’emozione è enorme. Una folla spontanea, un mare di gente silenziosa. Ammassati sui muri, sulle gibbosità del terreno, sui balconi, persino sui rifiuti. Erano quasi in cinquemila, venuti dal Tiburtino, dal Tuscolano, da Trastevere, da ogni angolo di Roma. Un funerale ‘povero, spontaneo e popolare’. (tratto dal Il Messaggero, aprile 1973).Tra tutti i morti ammazzati negli anni di piombo, l'omicidio dei fratelli Mattei ha un suo primato per i tanti silenzi, le doppie verità e le scelleratezze della stampa “indipendente”; forse perché l'ideologia dominante del tempo trovò difficile digerire il paradosso del rovesciamento delle parti tra vittime proletarie e carnefici borghesi.Lo sintetizza Luca Telese nel suo libro "Cuori Neri" . “Tutti i cliché correnti nell'immaginario della sinistra vengono d'un tratto ribaltati (...) le vittime sono di destra, poveri sottoproletari di borgata (...), gli indiziati sono giovani benestanti o addirittura ricchi. E  Il loro ritrovo abituale è la fastosa piazza di Campo de' fiori nel cuore di Roma”.“I proletari son pronti alla lotta, fame o lavoro non vogliono più, non c’è da perdere che le catene e c’è un intero mondo da guadagnare. Via dalle linee, prendiamo il fucile, forza compagni, alla guerra civile!”. Questo l’inno di Potere operaio, di cui facevano parte Lollo, Grillo e Clavo. Non di certo gente del popolo. Tutti figli della Roma bene e della buona borghesia che, autoproclamatisi difensori del popolo, hanno deciso di rendersi carnefici di chi proletario era davvero.

“Sono quarant’anni senza verità. Senza Giustizia”. Di quel 16 aprile del 1973, Giampaolo Mattei, il più piccolo della famiglia, non parla e non vuole parlare. Quello che rimane, quattro decenni dopo il “Rogo di Primavalle”, è solo il dolore misto alla rabbia. Tanta rabbia. “Quella è l’unica cosa che non ci possono togliere, la rabbia”. Rabbia nei confronti delle istituzioni che, negli anni, si sono dimenticate di lui, dei suoi fratelli e dei suoi genitori. Rabbia perché, per la morte di Virgilio e Stefano, nessuno ha mai pagato. 
Ma cominciamo dal principio.
Roma. 17 aprile 1973. Fin dal giorno successivo al rogo di via Bibbiena n.6 iniziano a girare voci strane, assurde, vergognose.  Le indagini degli inquirenti si rivolgono immediatamente verso gli esponenti di uno dei gruppi più attivi della sinistra extraparlamentare: Potere Operaio. PotOp per gli addetti ai lavori. Ma, perfino a sinistra, un atto così vile come dare fuoco alla casa di un proletario, un vero proletario, sembra troppo. L’attentato contro la famiglia Mattei, le morti di Virgilio e Stefano, arsi vivi sotto gli occhi dei genitori e dei quattro fratelli sopravvissuti, non può essere rivendicato. E, allora, la migliore delle soluzioni possibili è quella di insinuare l’assurda ipotesi “dell’autostrage”. Il meccanismo perfettamente innescato, comincia a girare. Il Manifesto del 17 aprile titola così: “Assassinati due figli del segretario del Msi di Primavalle in un incendio doloso. È un delitto nazista. Fermato un fascista”.  E ancora, sempre lo stesso giorno, non lontano da via Bibbiena, al Liceo Castelnuovo, viene pubblicato un volantino a firma congiunta di studenti e professori: “L’antifascismo non è mai stato e non è terrorismo. Solo una mente fascista poteva pensare di appiccare il fuoco ad un appartamento di un lotto proletario, in una casa in cui dormono dei bambini”. Il fatto che il volantino venga proprio dal Castelnuovo, non è un caso. Sì, perché quel liceo scientifico è lo stesso in cui si è diplomato uno dei membri più conosciuti di PotOp, Achille Lollo. Che viene arrestato appena due giorni dopo il rogo, il 18 aprile.
È proprio lui che si sta cercando di difendere. È Lollo che, insieme a Malio Grillo e Marino Clavo, quella notte, in via Bibbiena, nel cuore della Roma più proletaria, ha versato cinque litri di benzina sotto la porta dei Mattei, appiccando poi il fuoco. Eppure, è più comodo pensare che siano stati i fascisti. Sì, perché quella di Primavalle poteva essere una vera e propria strage. E le stragi, si sa, non uccidono gli avversari politici, ma solo gli innocenti. E, si sa altrettanto bene, le stragi le fanno solo “i fascisti”.
Le indagini vanno avanti per due anni. Lollo rimane in carcere. Grillo e Clavo si danno alla latitanza. Non verranno mai arrestati. Nel frattempo, la macchina costruita appositamente per discolpare il militante di Potere Operaio, va avanti imperterrita. Ad un anno dal rogo, nel 1974, viene redatto e pubblicato dalla Savelli nella sua collana “la nuova sinistra”, un opuscolo destinato a passare alla storia. Gli autori fanno parte tutti del “Collettivo Potere Operaio”, e l’agghiacciante titolo è “Primavalle: Incendio a porte chiuse”. È sufficiente leggere la delirante nota dell'editore, nella prima pagina dell’opuscolo, per rendersi conto di che razza di ipotesi si cerchi di tenere in piedi.
“La montatura sull'incendio di Primavalle non si presenta come il risultato di un meccanismo di provocazione premeditato a lungo e ad alto livello, tipo ‘strage di stato’, ‘Primavalle’ è piuttosto una trama costruita affannosamente, a ‘caldo’ da polizia e magistratura, un modo di sfruttare un'occasione per trasformare un ‘banale incidente’ o un oscuro episodio - nato e sviluppatosi nel vermiciaio della sezione fascista del quartiere - in un'occasione di rilancio degli opposti estremismi in un momento in cui la strage del giovedì nero con l'uccisione dell'agente Marino  (avvenuta a Milano 3 giorni prima) ne aveva vanificato la credibilità”. (Corsivo del redattore).
Un complotto costruito ad arte dalla polizia, così come dai giudici e magari con l’aiuto di qualche missino del quartiere, per incastrare i compagni innocenti. Questa la linea prescelta. Ma, se possibile, c’è di peggio. Sì, perché a scrivere la prefazione di “Primavalle: un incendio a porte chiuse” è proprio un giudice. Il pubblico ministero Marrone. Tra i fondatori di “Magistratura Democratica” (sic!).
E ancora non basta, perché a difendere Achille Lollo ed i suoi “compagni”-complici-latitanti, scendono in campo anche nomi importanti del panorama politico e culturale italiano.
Tantissimi gli intellettuali ed i giornali che si espongono per difendere gli imputati. Uno dei nomi più noti è quello di Franca Rame. Anche la moglie del futuro Premio Nobel, Dario Fo, si schiera fra le file degli innocentisti. Scrive addirittura una lettera a Lollo dicendogli: “Ti ho inserito nel Soccorso Rosso Militante. Riceverai denaro dai compagni, e lettere, così ti sentirai meno solo”. Dalla parte degli assassini, si schiera anche lo scrittore Alberto Moravia.
E ancora. L’editore e direttore de Il Messaggero, il più autorevole quotidiano romano, Alessandro Perrone si schiera apertamente dalla parte di Potere Operaio e dei suoi militanti. Non può fare altrimenti, d’altra parte, sua nipote, Diana (figlia di suo fratello Nando, coeditore del giornale romano) fa parte di PotOp e verrà in prima persona coinvolta nelle indagini sul Rogo di Primavalle.
Non basta. A favore di Lollo, Grillo e Clavo si schierano anche due “padri costituenti”: il senatore comunista  Umberto Terracini (già presidente dell'Assemblea Costituente) e il deputato socialista Riccardo Lombardi (anche lui membro della Costituente e capo storico della corrente di sinistra del PSI).
Stesso trattamento solidale, la stampa e l’intellighenzia faziosa di sinistra, non la riserva ai Mattei.
È in questo clima che, il 24 febbraio del 1975, si apre il processo contro i tre “compagni” di PotOp. In aula è presente solamente Lollo. Clavo e Grillo sono latitanti dal giorno del Rogo. La Pubblica Accusa, che ha rinviato a giudizio tutti e tre gli imputati, ha chiesto la condanna all’ergastolo. Il capo d’imputazione è uno solo, uguale per tutti: strage. 
Il 28 febbraio, in aula si sta tenendo la IV udienza per il Processo contro Lollo e i suoi. Una folla di compagni invasati si è radunata fuori dal Tribunale, a Piazzale Clodio. L’odio cieco nei confronti dei “fascisti” esplode in una feroce caccia al missino. A pagare, con la sua vita, sarà Mikis Mantakas. Lo studente greco ucciso senza pietà da Alvaro Lojacono a via Ottaviano e lasciato agonizzante sul marciapiede. 
Alla fine dell’istruttoria del processo di primo grado, il capo d’imputazione è derubricato e non di poco. Lollo e gli altri sono accusati solo di omicidio colposo ed incendio doloso. Vengono addirittura assolti tutti e tre per “insufficienza di prove”. Achille Lollo viene rimesso in libertà. Ha scontato due anni di carcere preventivo. Saranno anche gli unici che farà nella sua vita. Dopo l’assoluzione in primo grado si dà alla latitanza, prima in Svizzera, poi in Angola (dove conosce la sua futura moglie), infine in Brasile.
All’apertura del Processo d’Appello, nessuno dei tre imputati è presente. Vengono tutti condannati a 18 anni per omicidio preterintenzionale. Che, per chi non conosce il complesso linguaggio del diritto, vuole dire “oltre l’intenzione”. Non volevano uccidere, quindi, Lollo e i suoi. Hanno cosparso di benzina l’entrata della casa dei Mattei, con 8 persone dentro, che dormivano, (questa è una delle poche verità processuali), ma, nonostante questo, per i giudici, non volevano uccidere. La sentenza di secondo grado, è quella definitiva. Grillo apprende la notizia della condanna dal Nicaragua. Lollo è già a Rio De Janeiro. Per nessuno dei due è possibile l’estradizione. Clavo, non è mai stato rintracciato. 
Nel gennaio del 2005 arriva la decisione definitiva della Corte d’Appello di Roma. La pena, per i tre responsabili del rogo di Primavalle, è prescritta. Immediatamente dopo la decisione dei giudici, Achille Lollo decide di tornare in Italia e di dare la sua versione dei fatti. Per la prima volta, a modo suo, ammette le responsabilità nel Rogo. Coinvolgendo, trent’anni dopo, anche altri tre “compagni”: Elisabetta Lecco, Paolo Gaeta e proprio Diana Perrone. “L’attentato alla casa dei Mattei venne organizzato da sei persone. Gli altri tre sono liberi e tranquilli da 32 anni”. Queste le parole di Lollo al Corriere della Sera, nel febbraio del 2005. “Il 17 o il 18 aprile, due giorni dopo il Rogo, noi sei ci chiudemmo in una stanza appartata della sezione di Potere Operaio in via del Boschetto e facemmo un giuramento, lo chiamai ‘silenzio ideologico’, era il linguaggio di quei tempi. Nessuno di noi avrebbe aperto bocca per trent’anni. Né sui fatti, nè sui compagni coinvolti”. Alle accuse, arrivate dopo decenni di omertà, nessuno ha dato seguito, tantomeno la Procura della Repubblica di Roma. Eppure, siccome “le parole sono pietre”, come ricordava Primo Levi, è bene riportare il passaggio finale di quell’intervista ad uno dei responsabili –accertati- del Rogo di Primavalle. “Noi non abbiamo incendiato la casa dei Mattei. Ci sono troppe cose strane successe quella notte. Nessuno fece scivolare la benzina sotto la porta. L’innesco non si accese. E poi loro non vennero colti nel sonno, ci stavano aspettando”. Allora, non si capisce perché i Mattei avrebbero permesso che due dei loro figli venissero arsi vivi davanti ai loro occhi. “Non so cosa pensare. Ma non mi sto dichiarando innocente. (…) E se mi avessero dato otto anni invece che sedici, li avrei scontati senza scappare. Avevo fiducia che le indagini ricostruissero i fatti. Invece ho dovuto farlo io, dopo 32 anni”. Non chiede scusa alla famiglia Mattei, Achille Lollo. Non ammette nessuna colpa. E, ancora oggi, a distanza di quarant’anni, per la morte di Virgilio e Stefano, brutalmente uccisi a 22 e 8 anni, nessuno ha mai pagato. Anche se si sa chi sono stati i colpevoli.
“Io non perdono. Io non posso perdonare”, ha detto Annamaria Mattei, la mamma dei due fratelli morti il 16 Aprile del ‘73 a Primavalle. Sì, perché non può esserci perdono, quando non è stata fatta giustizia.

Paolo Signorelli e Micol Paglia (il Giornale d'Italia)


RICORDO DI TUTTI I MILITANTI MSI VITTIME DEL TERRORISMO

Han ballato sui loro corpi, han sputato sul loro nome, hanno scosso le loro tombe ma non li possono cancellare
E' una piazza piena di sogni, un'armata di cari amici, mille anime di caduti ma nel ricordo non li hanno uccisi
sono i giovani di Acca Larentia ed i ragazzi in camicia nera, i fratelli di Primavalle ed i martiri dell'Emilia

1 commento:

  1. E’ morta a Roma Anna Mattei, la mamma di Virgilio e Stefano, arsi vivi nel rogo di Primavalle del 16 aprile 1973. Aveva 82 anni. Invano aveva atteso che lo Stato italiano restituisse con un atto di giustizia dignità a quei “cuori neri” che nessuno voleva ricordare, cuori che erano verdi di speranza, cuori di mamma. Per la famiglia missina lei era “mamma Mattei”. Lei era l’icona del lutto di una comunità, sempre fedele per decenni alle sue radici di donna del popolo. Giorgio Almirante la chiamava sul palco ai congressi e lei riceveva l’omaggio dei delegati. Non aveva bisogno di parlare. Nessuno ignorava cosa aveva dovuto sopportare, quale ferita si portava dietro. Nessuno, anche quelli che nel 1973 erano piccoli, poteva dimenticare l’immagine di lei, col velo di pizzo, ai funerali dei figli rapiti dalle fiamme implacabili. E nelle famiglie dei missini quella storia triste diventava epica del dolore. Tutti, anche i piccini, dovevano sapere che morte era riservata ai perdenti, ai reduci, a quelli dalla parte sbagliata. Poche settimane fa è morta Franca Rame, la donna famosa e di successo che non aveva esitato a difendere gli assassini di Primavalle. Se n’è andata senza mai nutrire un pensiero, chissà, per quest’altra donna, amica dei “perdenti” e non di successo ma così forte da sopravvivere a quel rogo notturno. E dopo Franca Rame se n’è andato anche Ruggero Guarini, tra gli autori dell’infame libello Incendio a porte chiuse che organizzò l’ignobile depistaggio sul delitto, descrivendolo come una faida interna al mondo dei camerati romani. Nessuno ha mai chiesto scusa alla famiglia per le infamie dette. Mamma Mattei era uscita dal cono d’ombra della memoria ghettizzata quando l’ex sindaco Veltroni aveva patrocinato l’incontro tra il figlio Giampaolo e la madre di Valerio Verbano. Far incontrare le vittime. Favorire la memoria pacificata. Un dolore simile, un’unica sete di giustizia mai arrivata. Anna Mattei non si era tirata indietro pur rifiutando l’intitolazione di una strada a Stefano e Virgilio per timore di speculazioni politiche. I martiri non vanno strumentalizzati, diceva la famiglia, soprattutto da quando la destra non era più quella degli anni Settanta, quella di Almirante, quella degli eroici furori degli esuli in patria. Negli anni l’odio, se mai c’è stato, era sfumato via lasciando ai ricordi il compito tenero di far sopravvivere gli affetti. Di recente il figlio Giampaolo in un’intervista al Corriere ha raccontato di come tutta la famiglia si impegnasse per non far mai vedere alla madre la foto simbolo del rogo di Primavalle: il volto di Virgilio sfigurato dal rogo, mentre il fratellino si attaccava alle sue gambe. Nei ritagli di giornale conservati a casa Mattei e che parlavano dell’eccidio c’era un buco al posto della fotografia, perché quell’immagine le fosse risparmiata, perché lei non la doveva rivedere. Doveva, voleva, ricordarseli vivi e sorridenti. Oggi quella che un tempo è stata la sua “grande” famiglia, anche se dispersa e disorientata, torna a salutarla con immutato affetto, sa che non dimenticherà i suoi figli martiri, sa che non dimenticherà la sua lezione di dignità. (La camera ardente di Anna Mattei è alla clinica Villa Claudia in via Flaminia 280. I funerali saranno celebrati venerdì alle 10 alla parrocchia di Santa Croce in via Guido Reni).

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