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giovedì 30 gennaio 2014

213) CIMELI FAMILIARI PER IL 70° DEL BOMBARDAMENTO DI CORI

BREVE RICORDO DEL BOMBARDAMENTO DI CORI, FOTOGRAFIE FAMILIARI SULLA DISTRUTTA CHIESA DI SAN PIETRO  E ALTRO.


Il 30 gennaio di quest’anno ricorre il 70° anniversario del primo bombardamento aereo di Cori, che ci fu appunto il 30 gennaio 1944. Brevemente narrerò gli eventi di quell’anno, servendomi di pubblicazioni attinenti e di testimonianze dirette.

Pochi si aspettavano che il nostro paese venisse bombardato, tanto da divenire “sicuro rifugio” per abitanti di altri paesi, martoriati dalle bombe perché strategici. Dopo lo sbarco Alleato ad Anzio del 22 gennaio i rumori degli aerei che volavano a bassa quota si fecero sempre più assordanti, qualcuno per la paura si rifugiò in montagna e nell’orizzonte marino era possibile perfino intravedere delle navi. Molti scherzavano con gli aerei che sorvolavano il paese dei Lepini, si invitavano i piloti a liberarsi dei loro “carichi” dicendo: “sgancia Pè!” Quella dose eccessiva di sicurezza svanì la domenica del 30 gennaio col primo bombardamento, nei mesi successivi ne seguiranno degli altri. I superstiti si rifugiarono sui monti sino all’arrivo degli Anglo – Americani nel mese di maggio di quel 1944. I morti in quei terribili quattro mesi furono pressappoco sui duecentocinquanta e i feriti all’ incirca mille. Il motivo per cui Cori destò interesse tra gli Alleati fu la presunta presenza di un deposito di armi tedesche in una chiesa del paese: infatti alcune chiese furono rase al suolo, mentre altre subirono dei gravissimi danni. Le due chiese parrocchiali della parte alta del paese non si salvarono: morirono i rispettivi parroci e i fedeli che partecipavano alle funzioni.




In uno di questi luoghi di culto, a San Pietro, vicino al Tempio d’Ercole, i miei nonni si sposarono nell’Aprile 1942, esattamente 21 mesi prima della sua distruzione. Ho voluto scegliere l'immagine pubblicata, nonostante sia  in un cattivo stato di conservazione rispetto ad altre, perché tra le colonne del tempio si intravede l’entrata di quella chiesa.


L’interno della citata chiesa riprodotta sopra è una cartolina postale dell’epoca in mio possesso; non sono l'unico a possederla, visto che è già stata pubblicata in alcuni libri dedicati a Cori. Il tutto è tratto dai cimeli dei miei nonni che comprendono molte fotografie d’epoca. Mio nonno era della Guardia di Finanza, girò un bel po’ prima di arrivare a Cori, per cui abbiamo molte sue immagini e quelle di molti militari suoi colleghi con delle dediche: da esse si può riscontrare che allora l’anno fascista in numero romano era compreso nella data e tutti lo inserivano, specie gli appartenenti ai corpi armati e alle forze dell’ordine che dovevano scrupolosamente attenersi alle disposizioni impartite. Le foto-cartoline provengono un po’ da tutta Italia; tra queste c’è anche l’immagine di un piccolo balilla con timbro di un fotografo di Trieste. Nel mezzo di tutte queste foto ho scelto di inserirne una proveniente da Pola, nell’Istria, per rimpiangere i tempi andati: oggi è una città croata, già jugoslava, al tempo di quest’istantanea era un ridente capoluogo di provincia italiano.

lunedì 20 gennaio 2014

212) IL VALORE GIAPPONESE

LE CONTRADDIZIONI DEL GIAPPONE: UNA NAZIONE MAI COMPLETAMENTE “OCCIDENTALIZZATA” E L’OTTIMO CONNUBIO TRA TECNOLOGIE E TRADIZIONI CHE NON RISENTE DELLA CRISI ECONOMICA.

Il cosiddetto “ultimo giapponese”, alias Hiroo Honoda, è morto all’età di novantuno anni. “L'ultimo dei giapponesi” è un modo di dire per indicare coloro che, come i giapponesi nascosti nella giungla nella Seconda Guerra Mondiale che non si arresero all'evidenza della fine della guerra perché avevano perso tutti i contatti con il mondo o perché non vollero accettarla e per anni continuarono a combattere, non accettano l’evidenza dei fatti. È questo il caso del citato Hiroo Honada che, ignaro della fine della Seconda Guerra Mondiale nel 1945, continuò a servire la sua patria combattendo e rimase nascosto nella giungla della Filippine sino al 1974, allorquando riuscirono finalmente a convincerlo a tornare in patria (fu proprio l’ultimo a rientrare), dove fu accolto con tutti gli onori.


Manifesto giapponese della Seconda Guerra Mondiale.



Nel frattempo il suo paese era molto diverso da come lo aveva lasciato: entrato nell’orbita d’influenza dell’occidente, era divenuto un colosso economico ed industriale mondiale, secondo solo agli Stati Uniti. La nazione, piegata solamente dalle bombe atomiche di Hiroshima e Nagasaki, senza le quali non si sarebbe mai arresa, aveva cambiato i connotati, abbandonando in modo apparente il nazionalismo, l’orgoglio nazionale, propri degli antichi samurai e dei più recenti kamikaze; l’imperatore, il quale era scampato al processo per crimini di guerra, non era più un dio. Purtroppo quando si fa la guerra ognuno deve pensare al proprio tornaconto e al cercare di risparmiare più vite possibili dalla propria parte, anche se ciò comporta che tutto si rivolga contro i propri nemici: così ragionarono gli americani nel 1945 quando decisero di impiegare queste nuove armi di distruzione di massa al fine di far capitolare il Giappone e di risparmiare un milione di vite di soldati americani che avrebbe comportato l’invasione dell’arcipelago giapponese. Inoltre gi americani avevano un alibi giustificatore pronto: erano essi che furono aggrediti per primi dai giapponesi a Pearl Harbor nelle isole Hawaii. Nei decenni successivi dalla fine della guerra il rientro dei molti soldati all'oscuro di tutto divenivano dei momenti per riscoprire i valori antichi da guerrieri di un popolo, dimenticandosi così della sconfitta subìta e del grande sviluppo economico che si pensava avesse cambiato i connotati della nazione.

Il progresso tecnologico e il legame alla cultura e alle tradizioni convivono benissimo nel paese del Sol Levante. Esso nonostante sia entrato nella sfera d’influenza americana – occidentale non si è mai fatto interamente contaminare nel modo di pensare. In occidente la visione mondialista della sinistra politica e del cristianesimo progressista ha portato alla creazione del mito del multiculturalismo  e del “cittadino del mondo” (anche se entrambi i promotori hanno i loro fini ben definiti per promuovere la diffusione della società multietnica), infischiandosene totalmente della perdita dei propri usi e costumi, delle tradizioni storiche, culturali, patriottiche, religiose e delle glorie del proprio popolo. Le forze politiche conservatrici non possono fare granché per arginare ciò, a causa di quel “sistema” ramificato in ogni angolo che influenza tutto. Il Giappone al contrario resiste: conservando la società monoculturale e opponendosi alle pressioni nazionali e internazionali che chiedono a gran voce l’immigrazione di massa per far fronte alla denatalità, all’invecchiamento della popolazione e al gran numero di suicidi, grave piaga del paese. L'ex primo ministro giapponese Taro Aso ha una volta descritto il Giappone come una nazione di «una razza, una civiltà, una lingua e una cultura». Nell’arcipelago giapponese vivono circa 128 milioni di persone, la densità della popolazione è tra le più alte del mondo e solo l’1,5% non è giapponese: tra questo 1,5% molti hanno gli avi giapponesi. Si preferisce promuovere campagne di sensibilizzazione per l’incremento delle nascite, invece che concentrarsi sull’apertura totale delle frontiere.

In quel paese la crisi economica si è fatta sentire poco e il tenore di vita dei cittadini è tra i più alti del mondo. L’energia nucleare soddisfa gran parte del fabbisogno energetico e alla nazione non conviene bloccarla, nonostante quello che è successo nella centrale nucleare di Fukushima a seguito del maremoto. Un’altra differenza con il mondo occidentale è la pena di morte in vigore.



Il modo di pensare dell’occidente non ha contaminato il colosso asiatico, però la cultura europea lo affascina: vengono prodotti molti cartoni animati ispirati ai romanzi europei per i ragazzi ("Ai no gakko Cuore Monogatari", il nostro "Libro Cuore" ne è l'esempio: le gesta della nostra gloria recente sono arrivate anche nel lontano oriente grazie a Edmondo De Amicis e grazie ai giapponesi si sono diffuse ancor di più in tutto il mondo) e in più vengono celebrati molti matrimoni con rito cristiano. Il Giappone è un buon connubio vincente tra tecnologia – modernità e tradizioni patriottiche – culturali.

mercoledì 8 gennaio 2014

211) LA STRAGE DI ACCA LARENTIA

Acca Larentia, per non dimenticare

In memoria di Franco Bigonzetti, Francesco Ciavatta e Stefano Recchioni e di ‘quella sera di gennaio che resta fissa nei pensieri’




C’è una strada, nel cuore del quartiere Tuscolano a Roma, che da 36 anni è il simbolo di una generazione che ha sofferto, che ha sacrificato  i propri figli in una guerra senza perché. Si chiama via Acca Larentia. C’è una data, nel calendario, che da 36 anni è listata a lutto. È il 7 gennaio 1978.
Solo fino al giorno prima le luci natalizie rendevano il clima festivo e caldo, l’Epifania chiudeva le vacanze di Natale. Poche ore dopo una raffica di proiettili spezzava due giovani ed innocenti vite.
La sezione di Via Acca Larentia, al Tuscolano, si trova su un piazzale che affaccia su via Evandro e prosegue su un ballatoio che porta a via delle Cave. Il 7 gennaio ‘78 è un sabato, sono le 18 e in sezione alcuni ragazzi stanno organizzando un volantinaggio contro la chiusura della sede di Via Ottaviano. Sono Franco Bigonzetti, 19 anni, Francesco Ciavatta, 18, Maurizio Lupini, Pino D’Audino, Enzo Segneri.  Escono della sezione e si danno appuntamento a Piazza Risorgimento, nel quartiere Prati. Accade tutto in un istante: una raffica di proiettili esplosi da una Skorpion li investe. Altri colpi vengono sparati da pistole semiautomatiche. Franco viene colpito e cade sulla porta della sezione, Francesco tenta una fuga disperata ed inutile sulle scale del ballatoio, cadrà dal lato opposto e morirà appena giunto in ospedale.


Maurizio, Pino ed Enzo si rifugiano dentro la sezione, restano in ascolto. Fuori si sente parlare: “’ndo cazzo ve sete nascosti, li mortacci vostri” urla qualcuno. E spara. Ancora sul corpo senza vita di Franco.  I tre restano in attesa, sul pavimento della sezione. Poi Maurizio si avvicina al portone, ascolta: “se ne so’ annati” dice agli altri. Enzo è ferito ad un braccio. “Mo dopo annamo all’ospaedale” gli dice Maurizio, che poi accende la luce.

Guarda i suoi amici, Pino è frastornato, Enzo sente dolore al braccio. All’unisono si voltano, qualcosa attrae la loro attenzione. Sul pavimento, dall’anta sinistra della porta, filtra del sangue. Maurizio apre la porta. Il corpo di Franco è lì, muto, accasciato sullo stipite. Quei proiettili lo hanno ucciso. Maurizio capisce che Franco ha cercato di fuggire, la direzione più plausibile è proprio quella del ballatoio, lo percorre, giunge sull’altro lato delle scale, vede Francesco a terra, scende le scale di corsa, lo raggiunge. “Mauri’ … Mauri’ …” lo chiama Francesco “A me m’hanno solo ferito. Andate a vedere Franco, mi sa che l’hanno ammazzato”. Maurizio lo tiene stretto a sé, l’anima svuotata, il cuore in pezzi, gli occhi gonfi. “France’ …” invoca. “Mauri’ … Mauri’ … aiutame … me brucia tutto”. Sono le ultime parole di Francesco Ciavatta. Le lacrime di Maurizio, Francesco tra le sue braccia. Le lacrime di Enzo, lo sguardo perso nel vuoto di Pino, Franco accasciato sullo stipite della porta. E le sirene delle ambulanze e della polizia che si avvicinano.
È la cronaca di un giorno terribile, che resterà nella storia di una generazione, e poi delle successive, per sempre. Ed è solo una cronaca parziale. Perché quel 7 gennaio non ha ancora finito di mietere le sue vittime.
Nelle ore che seguono la tragedia molti giovani si radunano nel piazzale, le forze dell’ordine intervengono per tenere sotto controllo la situazione,  si forma un corteo spontaneo. Sono momenti terribili, durante i quali una comunità si stringe intorno al proprio lutto. Il corteo staziona su via Evandro, il clima è teso, dalla pistola del capitano Eduardo Sivori parte un proiettile che colpisce Stefano Recchioni in piena fronte.
Stefano è un giovane militante, appassionato, tranquillo. Dopo due giorni morirà in ospedale, diventando la terza vittima di una strage che non ha un perché.
Acca Larentia di vittime ne miete quattro: l’anno successivo, durante la manifestazione per la prima ricorrenza dell’odiata strage, Alberto Giaquinto, 17 anni appena, cadrà sull’asfalto di Via del Castani, nel quartiere Centocelle. “Troppo sangue sparso sopra i marciapiedi”.
"Un nucleo armato, dopo un'accurata opera di controinformazione e controllo della fogna di via Acca Larentia, ha colpito i topi neri nell'esatto momentoin cui questi stavano uscendo per compiere l'ennesima azione squadristica. Non si illudano i camerati, la lista è ancora lunga...". è il testo della rivendicazione della strage, rinvenuto in una cassetta audio a nome dei Nuclei Armati per il Contropotere Territoriale. 
La vicenda relativa alle indagini che sono seguite all'attentato, come pure la storia dela Skorpion maledetta, è lunga e complessa: basti dire in questa sede che nessuno ha mai pagato per quei fatti e che lo scorso anno sono state riaperte le indagini contro ignoti, sperando che le nuove tecniche investigative possano far luce su vicende mai risolte. Ed eco riemergere vecchie carte e anche vecchi dolori, mai sopiti. Dolori che appartengono ad una intera comunità.

lunedì 6 gennaio 2014

210) LA CONFESSIONE


IL SACRAMENTO DELLA CONFESSIONE



In occasione delle festività religiose cattoliche, quali natale, pasqua, ricorrenze paesane dei santi patroni, si registra un aumento delle confessioni da parte dei fedeli rispetto agli altri periodi dell’anno. Secondo la liturgia Cattolica con il Sacramento della Riconciliazione si ottiene il perdono dai propri peccati. Si parte da bambini con questo sacramento, in occasione della Prima Comunione, iniziando a confidarsi in elementarità (bugie, parolacce, disobbedienza ai genitori) e di frequente a non dire tutto per timore, poi man mano che si cresce, chi continua perché ritiene importante questo strumento diventa sempre più esperto nell’elaborare delle narrazioni, frutto di riflessioni e meditazioni molto profonde. È un classico che i commenti dei curiosi facciano da contorno: “È molto tempo che è dentro, cosa avranno da raccontarsi?”; oppure quando si visita qualche luogo religioso e il sacerdote che accompagna si mette a confessare, si commenta: “Vedi come gli va bene? Sente pure quello che fanno le persone di queste parti!”

Non tutti i cattolici ritengono indispensabile la confessione, molti si interrogano: “Ma io quali peccati commetterei? Non ammazzo, non rubo e non faccio del male alle gente!” Altre persone, in particolare le signore anziane che vanno sempre in chiesa, non saprebbero proprio cosa dire al sacerdote, guardando pure alle cose molto più piccole dei peccati mortali: “Entro lì e cosa gli dico? Le bestemmie e gli accidenti non li dico, quello non lo faccio, quell’altro idem!”  Ci sono altri fedeli con altri caratteri e che hanno delle visioni diverse di fede che sono tutto l’opposto di costoro e ricorrono alla confessione molto spesso per dei motivi di cui la maggior parte di noi neanche farebbe caso. Oppure per chi è solo, il confessarsi spesso è anche un modo per poter parlare, per sfogarsi con qualcuno. Altri ancora che non frequentano molto le funzioni ma che in occasione delle festività citate in precedenza sentono la necessità di rivelare ad un sacerdote, il quale è vincolato dal segreto, le loro mancanze. Altre categorie di individui che non sono praticanti non comprendono proprio questo sacramento cattolico: loro non vi ricorrerebbero mai, principalmente per paura che il prete durante le prediche con il microfono spiattelli tutti i loro fatti personali; ma qualcuno di questi malvolentieri è "costretto" a confessarsi in occasione delle nozze. Se capita che il sacerdote nelle omelie citi le confessioni dei fedeli, parla a livello generico, deve mantenere il segreto e non si sognerebbe mai di dire: “Tizio mi ha detto così! Caio mi ha detto colà!” È successo che i penitenti abbiano confessato dei gravi crimini in cui ci sono andati di mezzo degli innocenti; in quei casi la maggior parte dei confessori in modo indiretto hanno cercato di indirizzare le forze dell’ordine e giudiziarie sulla pista giusta; non avrebbero mai potuto rilevare il dialogo confessionale. La storia ha insegnato che qualche criminale si è ravveduto tramite la Riconciliazione.

Abbiamo visto che tra i cattolici ci sono molte opinioni contrastanti riguardanti il sacramento della riconciliazione; questi contrasti sono presenti anche tra le confessioni cristiane: infatti la quasi totalità dei culti protestanti non ha questo sacramento perché per essi basta pentirsi sinceramente per essere autoassolti dai propri peccati. Lo scandalo delle indulgenze (bastava pagare per avere l’assoluzione dei peccati per sé e per i propri parenti defunti) fu uno dei principali motivi che portarono alla nascita dei culti del Protestantesimo con il monaco Martin Lutero. Come detto sopra molti cattolici possono ragionare come i protestanti se ritengono di non aver commesso cose gravi.

Un altro fattore che influisce nel citato sacramento è il sacerdote che confessa. Solitamente non si va volentieri da quello che ti conosce, si preferiscono gli estranei; soltanto il prete ha il suo padre confessore fisso, se così vuole. Nel caso di un coetaneo in cui si instaurano dei rapporti di amicizia, non guardando alla tonaca, allora ci si confessa con piacere con l’amico, il quale non vede l’ora che si vada da lui. Uno potrebbe aspettarsi che il prelato anziano sia molto più severo di quello giovane; delle volte accade il contrario, dipende dai caratteri. Quando si decide di confessarsi bisogna farsi coraggio e vuotare completamente il sacco, mica si rischiano le botte o altre cose peggiori e se non si racconta tutto è per dimenticanza. Si parla di alcuni santi che cacciavano la gente dai confessionali: riuscivano ad accorgersi sia se le confidenze dei fedeli erano inventate e non frutto di meditazione e sia se non si confessava tutto. C’è invece chi preferisce altri sistemi più persuasivi e meno duri. Confessione si, confessione no, le leggerezze piccole e grandi si commettono quasi sempre, tutti hanno i loro difetti caratteriali e i santi sono ben pochi.