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sabato 12 marzo 2011

85) GLI ARTEFICI DELL'UNITA' D'ITALIA


 DAL LIBRO CUORE UN TRIBUTO AI PADRI DELL'ITALIA MODERNA


Vittorio Emanuele II di Savoia (Torino 1820 - Roma 1878)
Camillo Benso Conte di Cavour (Torino 1810 - Torino 1861)
Giuseppe Garibaldi (Nizza 1807 - Caprera 1882)
Giuseppe Mazzini (Genova 1805 - Pisa 1872)



 I funerali di Vittorio Emanuele

17, martedì
Quest’oggi alle due, appena entrato nella classe, il maestro chiamò Derossi, il quale s’andò a mettere accanto al tavolino, in faccia a noi, e cominciò a dire col suo accento vibrante, alzando via-via la voce limpida e colorandosi in viso: - Quattro anni sono, in questo giorno, a quest’ora, giungeva davanti al Pantheon, a Roma, il carro funebre che portava il cadavere di Vittorio Emanuele II, primo Re d’Italia, morto dopo ventinove anni di regno, durante i quali la grande patria italiana, spezzata in sette stati e oppressa da stranieri e da tiranni, era risorta in uno Stato solo, indipendente e libero; dopo un regno di ventinove anni, che egli aveva fatto illustre e benefico col valore, con la lealtà, con l’ardimento nei pericoli, con la saggezza dei trionfi, con la costanza delle sventure. Giungeva il carro funebre, carico di corone, dopo aver percorso Roma sotto una pioggia di fiori, tra il silenzio di una immensa moltitudine addolorata, accorsa da ogni parte d’Italia, preceduto da una legione di generali e da una folla di ministri e di principi, seguito da un corteo di mutilati, da una selva di bandiere, dagli inviati di trecento città, da tutto ciò che rappresenta la potenza e la gloria d’un popolo, giungeva dinanzi al tempio augusto dove l’aspettava la tomba. In questo momento dodici corazzieri levavano il feretro dal carro. In questo momento l’Italia dava l’ultimo addio al suo re morto, al suo vecchio re, che l’aveva tanto amata, l’ultimo addio al suo soldato, al padre suo, ai ventinove anni più fortunati e più benedetti della sua storia. Fu un momento grande e solenne. Lo sguardo, l’anima di tutti trepidava tra il feretro e le bandiere abbrunate degli ottanta reggimenti dell’esercito d’Italia portate da ottanta ufficiali, schierati sul suo passaggio; poiché l’Italia era là, in quegli ottanta segnacoli, che ricordavano le migliaia di morti, i torrenti di sangue, le nostre più sacre glorie, i nostri più santi sacrifizi, i nostri più tremendi dolori. Il feretro, portato dai corazzieri, e allora si chinarono tutte insieme, in atto di saluto le bandiere dei nuovi reggimenti, le vecchie bandiere lacere di Goito, di Pastrengo, di Santa Lucia, di Novara, di Crimea, di Palestro, di San Martino, di Castelfidardo, ottanta veli neri caddero, cento medaglie urtarono contro la cassa, e quello strepito sonoro e confuso, che rimescolò il sangue di tutti, fu come il suono di mille voci umane che dicessero tutte insieme – Addio, buon re, prode re, leale re! Tu vivrai nel cuore del tuo popolo finchè splenderà il sole sopra l’Italia. – dopo di che le bandiere si rialzarono alteramente verso il cielo, e re Vittorio entrò nella gloria immortale della tomba. 



Giuseppe Garibaldi 
 

3, sabato. Domani è la festa nazionale
Oggi è un lutto nazionale. Ieri sera è morto Garibaldi. Sai chi era? È quello che affrancò dieci milioni d’Italiani dalla tirannia dei Borboni. È morto a settantacinque anni. Era nato a Nizza, figliuolo d’un capitano di bastimento. A otto anni salvò la vita a una donna, a tredici, tirò a salvamento una barca piena di compagni che naufragavano, a ventisette, trasse dall’acque di Marsiglia un giovanetto che s’annegava, a quarant’uno scampò un bastimento dall’incendio sull’Oceano. Egli combatté dieci anni in America per la libertà d’un popolo straniero, combatté in tre guerre contro gli Austriaci per la liberazione della Lombardia e del Trentino, difese Roma dai Francesi nel 1849, liberò Palermo e Napoli nel 1860, ricombatté per Roma nel ’67, lottò nel 1870 contro i Tedeschi in difesa della Francia. Egli aveva la fiamma dell’eroismo e il genio della guerra. Combatté in quaranta combattimenti e ne vinse trentasette. Quando non combatté, lavorò per vivere o si chiuse in un’isola solitaria a coltivare la terra. Egli fu maestro marinaio, operaio, negoziante, soldato, generale, dittatore. Era grande, semplice e buono. Odiava tutti gli oppressori; amava tutti i popoli; proteggeva tutti i deboli; non aveva altra aspirazione che il bene, rifiutava gli onori; disprezzava la morte, adorava l’Italia. Quando gettava un grido di guerra, legioni di valorosi accorrevano a lui da ogni parte: signori lasciavano i palazzi; operai le officine, giovanetti le scuole per andar a combattere al sole della sua gloria. In guerra portava una camicia rossa. Era forte, biondo, bello. Sui campi di battaglia era un fulmine, negli affetti un fanciullo, nei dolori un santo. Mille Italiani son morti per la patria, felici morendo di vederlo passar di lontano vittorioso migliaia si sarebbero fatti uccidere per lui; milioni lo benedissero e lo benediranno. È morto. Il mondo intero lo piange. Tu non lo comprendi per ora. Ma leggerai le sue gesta, udrai parlar di lui continuamente nella vita; e via via che crescerai, la sua immagine crescerà pure davanti a te; quando sarai un uomo, lo vedrai gigante, e quando non sarai più al mondo tu, quando non vivranno più i figli dei tuoi figli, e quelli che saran nati da loro, ancora le generazioni vedranno in alto la sua testa luminosa di rendentore di popoli coronata dai nomi delle sue vittorie come da un cerchio di stelle, e ad ogni italiano risplenderà la fronte e l’anima pronunziando il suo nome.

TUO PADRE


Giuseppe Mazzini 

29, sabato
Anche questa mattina Garrone venne alla scuola pallido e con gli occhi gonfi di pianto; e diede appena un’occhiata ai piccoli regali che gli avevamo messi sul banco per consolarlo. Ma il maestro aveva portato una pagina d’un libro, da leggergli, per fargli animo. Prima ci avvertì che andassimo tutti domani al tocco al Municipio a veder dare la medaglia del valor civile a un ragazzo che ha salvato un bambino dal Po, e che lunedì egli ci avrebbe dettato la descrizione della festa, in luogo del racconto mensile. Poi, rivoltosi a Garrone, che stava col capo basso, gli disse: - Garrone, fa uno sforzo, e scrivi anche tu quello che io detto. - Tutti pigliammo la penna. Il maestro dettò.
«Giuseppe Mazzini, nato a Genova nel 1805, morto a Pisa nel 1872, grande anima di patriotta, grande ingegno di scrittore, ispiratore ed apostolo primo della rivoluzione italiana; il quale per amore della patria visse quarant’anni povero, esule, perseguitato, ramingo, eroicamente immobile nei suoi principii e nei suoi propositi; Giuseppe Mazzini che adorava sua madre, e che aveva attinto da lei quanto nella sua anima fortissima e gentile v’era di più alto e di più puro, così scriveva a un suo fedele amico, per consolarlo della più grande delle sventure. Son presso a poco le sue parole: "Amico, tu non vedrai mai più tua madre su questa terra. Questa è la tremenda verità. Io non mi reco a vederti, perché il tuo è uno di quei dolori solenni e santi che bisogna soffrire e vincere da sé soli. Comprendi ciò che voglio dire con queste parole: - Bisogna vincere il dolore? - Vincere quello che il dolore ha di meno santo, di meno purificatore; quello che, invece di migliorare l’anima, la indebolisce e l’abbassa. Ma l’altra parte del dolore, la parte nobile, quella che ingrandisce e innalza l’anima, quella deve rimanere con te, non lasciarti più mai. Quaggiù nulla si sostituisce a una buona madre. Nei dolori, nelle consolazioni che la vita può darti ancora, tu non la dimenticherai mai più. Ma tu devi ricordarla, amarla, rattristarti della sua morte in un modo degno di lei. O amico, ascoltami. La morte non esiste, non è nulla. Non si può nemmeno comprendere. La vita è vita, e segue la legge della vita: il progresso. Tu avevi ieri una madre in terra: oggi hai un angelo altrove. Tutto ciò che è bene sopravvive, cresciuto di potenza, alla vita terrena. Quindi anche l’amore di tua madre. Essa t’ama ora più che mai. E tu sei responsabile delle tue azioni a Lei più di prima. Dipende da te, dalle opere tue d’incontrarla, di rivederla in un’altra esistenza. Tu devi dunque, per amore e riverenza a tua madre, diventar migliore e darle gioia di te. Tu dovrai d’ora innanzi, ad ogni atto tuo, dire a te stesso: - Lo approverebbe mia madre? - La sua trasformazione ha messo per te nel mondo un angelo custode al quale devi riferire ogni cosa tua. Sii forte e buono; resisti al dolore disperato e volgare; abbi la tranquillità dei grandi patimenti nelle grandi anime: è ciò che essa vuole.»
- Garrone! - soggiunse il maestro: - sii forte e tranquillo, è ciò che essa vuole. Intendi? Garrone accennò di sì col capo, e intanto gli cadevan delle lacrime grosse e fitte sulle mani, sul quaderno, sul banco.


Il Conte Cavour

29, mercoledì
È la descrizione del monumento al conte Cavour che tu devi fare. Puoi farla. Ma chi sia stato il conte Cavour non lo puoi capire per ora. Per ora sappi questo soltanto: egli fu per molti anni il primo ministro del Piemonte, è lui che mandò l’esercito piemontese in Crimea a rialzare con la vittoria della Cernaia la nostra gloria militare caduta con la sconfitta di Novara; è lui che fece calare dalle Alpi centocinquantamila Francesi a cacciar gli Austriaci dalla Lombardia, è lui che governò l’Italia nel periodo più solenne della nostra rivoluzione, che diede in quegli anni il più potente impulso alla santa impresa dell’unificazione della patria, lui con l’ingegno luminoso, con la costanza invincibile, con l’operosità più che umana. Molti generali passarono ore terribili sul campo di battaglia; ma egli ne passò di più terribili nel suo gabinetto quando l’enorme opera sua poteva rovinare di momento in momento come un fragile edifizio a un crollo di terremoto, ore, notti di lotta e d’angoscia passò, da uscirne con la ragione stravolta o con la morte nel cuore. E fu questo gigantesco e tempestoso lavoro che gli accorciò di vent’anni la vita. Eppure, divorato dalla febbre che lo doveva gettar nella fossa, egli lottava ancora disperatamente con la malattia, per far qualche cosa per il suo paese. - È strano, diceva con dolore dal suo letto di morte, - non so più leggere, non posso più leggere. - Mentre gli cavavan sangue e la febbre aumentava, pensava alla sua patria, diceva imperiosamente: - Guaritemi, la mia mente s’oscura, ho bisogno di tutte le mie facoltà per trattare dei gravi affari. - Quando era già ridotto agli estremi, e tutta la città s’agitava, e il Re stava al suo capezzale, egli diceva con affanno. - Ho molte cose da dirvi, Sire, molte cose da farvi vedere; ma son malato, non posso, non posso; - e si desolava. E sempre il suo pensiero febbrile rivolava allo Stato, alle nuove provincie italiane che s’erano unite a noi; alle tante cose che rimanevan da farsi. Quando lo prese il delirio. - Educate l’infanzia, - esclamava fra gli aneliti, - educate l’infanzia e la gioventù... governate con la libertà. - Il delirio cresceva, la morte gli era sopra, ed egli invocava con parole ardenti il generale Garibaldi, col quale aveva avuto dei dissensi, e Venezia e Roma che non erano ancor libere, aveva delle vaste visioni dell’avvenire d’Italia e d’Europa, sognava un’invasione straniera, domandava dove fossero i corpi dell’esercito e i generali, trepidava ancora per noi, per il suo popolo. Il suo grande dolore, capisci, non era di sentirsi mancare la vita, era di vedersi sfuggire la patria, che aveva ancora bisogno di lui, e per la quale aveva logorato in pochi anni le forze smisurate del suo miracoloso organismo. Morì col grido della battaglia nella gola, e la sua morte fu grande come la sua vita. Ora pensa un poco, Enrico, che cosa è il nostro lavoro, che pure ci pesa tanto, che cosa sono i nostri dolori, la nostra morte stessa, a confronto delle fatiche, degli affanni formidabili, delle agonie tremende di quegli uomini; a cui pesa un mondo sul cuore! Pensa a questo, figliuolo, quando passi davanti a quell’immagine di marmo, e dille: - Gloria! - in cuor tuo.
TUO PADRE

1 commento:

  1. #1 16 Marzo 2011 - 18:29

    nonostante tutto,VIVA L' ITALIA!!!!!!!!!!!!!!!!!
    ciao!!

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