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lunedì 14 aprile 2014

223) FABRIZIO QUATTROCCHI: COME MUORE UN ITALIANO

"Quattrocchi, eroe scomodo e dimenticato da dieci anni"

L'ex compagno di prigionia in Irak, dove Fabrizio fu ucciso dagli insorti nel 2004: "Ignorato dalla stessa patria a cui ha dedicato gli ultimi istanti di vita"

Gian Micalessin - Lun, 14/04/2014 - 18:43



«Ammetterlo fa molto male eppure a dieci anni dal suo assassinio l'Italia s'è dimenticata di Fabrizio Quattrocchi. Gli hanno dedicato qualche piazza, ma poi tutto è finito lì.
Di Fabrizio non c'è più memoria. Nessuno sembra volerlo ricordare». Dieci anni dopo esser stato barbaramente trucidato in Irak, dieci anni dopo essersi strappato il bavaglio e aver urlato ai propri assassini Vi mostro come muore un italiano, Quattrocchi rischia di esser dimenticato dalla stessa patria a cui ha dedicato gli ultimi istanti della propria vita. Per il governo e le istituzioni italiane Fabrizio Quattrocchi è ormai un illustre sconosciuto. Un caduto scomodo e dimenticato. Un morto indegno d'esser ricordato. Come ricorda in quest'intervista al Giornale il suo compagno di prigionia Salvatore Stefio, oggi nessuna istituzione ricorderà Quattrocchi, assassinato il 14 aprile di dieci anni fa dopo esser caduto nelle mani di gruppo di insorti iracheni assieme a Maurizio Agliana e Umberto Cupertino e allo stesso Stefio. «Poco fa ho chiamato Maurizio Agliana che è in contatto con la sorella di Fabrizio e gli ho chiesto se sa di qualche manifestazione ufficiale per il decimo anniversario della morte. Anche secondo lui autorità e istituzioni non hanno organizzato nulla. Fa niente, ci siamo abituati. Lo ricorderemo io, Maurizio e Umberto Cupertino riunendoci con la sorella davanti alla tomba di famiglia a Genova. Sarà una cerimonia intima e privata. Del resto il mancato ricordo rientra nel clima di questo paese. Non è neppure una novità».
Eppure Quattrocchi è medaglia d'oro al valore civile decorato da Azeglio Ciampi.
«In Italia molti ci reputano solo mercenari interessati ai soldi. Penso sia un atteggiamento motivato politicamente».
La Corte d'Assise di Roma ha anche sentenziato che l'esecuzione non fu un atto di terrorismo.
«Lo so e ne sono rimasto indignato. Ancora non mi spiego come sia stato possibile pronunciare quella sentenza. Non trovo motivazioni logiche».
Cosa successe quel giorno?
«Non immaginavamo nulla. Erano passate 48 ore dalla cattura ed eravamo stati trasferiti in una seconda prigione. Eravamo seduti a terra in una stanza completamente vuota e spoglia con una finestra oscurata da una pesante tenda. Ci avevano già prelevato per interrogarci, quindi quando vennero a prenderlo non pensavamo volessero ucciderlo».
Qual è l'ultimo ricordo di Fabrizio?
«Ricordo il suo sorriso. Quando vennero a prenderlo lui si alzò e ci salutò con un sorriso. È l'ultima immagine di lui. Me la porterò dentro per sempre».
Quando capiste che era stato ucciso?
«Solo una volta libero appresi le circostanze della sua morte. Le raccontò chi fece arrivare all'intelligence le coordinate della nostra prigione. Gli altri ci avevano sempre detto di averlo rilasciato. Quando mi dissero di quell'ultima sua frase pronunciata davanti agli assassini non faticai a crederci. Una sola settimana con lui mi è bastata per capire di che pasta era fatto: generoso, pronto a sacrificarsi per quello in cui credeva».
Perché proprio lui?
«Me lo sono sempre chiesto. Lui non era stato né irruente, né provocatorio. Si comportò come tutti noi. Forse presero lui perché aveva il tesserino rilasciato dalle autorità americane mentre noi non avevamo ancora ritirato i nostri. Forse presero il primo che capitava perché avevano delle rivendicazioni politiche e volevano dimostrare di far sul serio».
Un misterioso Yussuf raccontò al «Sunday Times» di aver partecipato all'assassinio di Fabrizio. Pensa lo stiano ancora cercando?
«Durante il primo periodo della prigionia era sempre con noi. Parlava un discreto italiano e non era iracheno. Probabilmente veniva dal nord Africa e sembrava conoscere l'Italia. Abbiamo raccontato tutto ai carabinieri, ma non so se sia mai stato identificato. E non so se qualcuno lo stia cercando».
Ha mai guardato il filmato dell'uccisione?
«L'ho guardato e ho provato tanta rabbia, ma adesso è diverso. Ho deciso di trasformare quell'esperienza in qualcosa di utile. Organizzo corsi di sopravvivenza in cui insegno ad affrontare situazioni di prigionia simili a quelle provate in quei 58 giorni. È il mio modo per ricordare Fabrizio e donare un po' della sua memoria agli altri».


Vietato celebrare il decennale di Fabrizio Quattrocchi, un eroe che queste istituzioni non meritano


di Valter Delle Donne/lun 14 aprile 2014/16:46

Con indosso una maglietta commemorativa con la scritta “15 Delta, in memoria di Fabrizio Quattrocchi, medaglia d’oro al valore civile”, a 10 anni dal rapimento si sono ritrovati a Genova, per la prima volta insieme, Maurizio Agliana, Salvatore Stefio e Umberto Cupertino, sequestrati con il contractor genovese Fabrizio Quattrocchi il 13 aprile 2004 in Iraq dalle Falangi Verdi dell’Esercito di Maometto. «Saremo sempre qua a onorare Fabrizio Quattrocchi per quello che ha fatto, ciò che ha detto e come lo ha detto, nel momento in cui veniva a mancare la sua vita» ha detto Agliana che ha ricordato i 56 giorni di prigionia e il momento in cui venne scelto Fabrizio. «Prima che lo portassero via Fabrizio non disse niente – ha ricordato Agliana – si alzò e ci salutò, con tranquillità e serenità». Nessuno sapeva il destino del compagno di prigionia, fu detto loro che sarebbe stato liberato come “merce di scambio. «Ci venne detto che lo liberavano – ha spiegato Stefio – ufficialmente venimmo informati dal nostro ambasciatore, dopo essere stati liberati dalle forze speciali americane, che era deceduto». «Quando è andato via – ha proseguito Cupertino – lo abbiamo seguito con lo sguardo da sotto la porta, siamo rimasti a guardare i piedi, fino a quando è stato possibile». La casualità ha portato a scegliere Fabrizio: «Sono venuti, si sono guardati intorno e hanno scelto a caso, anche se lui era in Iraq da qualche mese prima di noi e aveva un badge definitivo. Può essere anche stato questo il motivo. Ma poteva capitare a chiunque». «Volevano un atto dimostrativo per confermarsi come gruppo terroristico – ha aggiunto Agliana – i criminali comuni si comportano in un altro modo». Per tutti resta il rammarico dell’assenza delle istituzioni nel decennale del rapimento. «Oggi come dieci anni fa – conclude Agliana – la città non è stata presente».
Un fatto non nuovo, quello della lontananza delle istituzioni dall’uomo che è morto dicendo: «Vi faccio vedere come muore un italiano» e che è stato ammirato per il suo eroismo in tutto il mondo. «Viviamo in un Paese strano – ha commentato Viviana Beccalossi – in cui il ricordo di una medaglia d’oro al valor civile viene cancellato e i suoi famigliari lasciati soli». Da qui l’appello dell’assessore regionale lombardo. «Mi auguro – dice l’esponente di Fratelli d’Italia – che siano proprio i Comuni, anche i più piccoli, a rompere questo assurdo silenzio. Basterebbero una mozione o un ordine del giorno che invitino la Giunta a porre in essere anche un piccolo segno tangibile, per ricordare un giovane morto con un coraggio e una dignità straordinari». Nel novembre scorso l’ultima offesa per Quattrocchi. Nelle motivazioni della sentenza della prima Corte d’Assise di Roma, che ha assolto due dei rapitori degli italiani, si legge infatti che l’assassinio del contractor non fu un atto di terrorismo ma un episodio di criminalità comune. Non è bastato ai magistrati il fatto che a rivendicare il sequestro dei quattro italiani in Iraq fossero state le “Falangi Verdi di Maometto” e nonostante il fatto che i rapitori considerassero quel rapimento uno strumento di ricatto di stampo terroristico per chiedere all’Italia di non sostenere più gli Stati Uniti e di ritirare le proprie truppe da Baghdad. Contro il provvedimento della Corte d’Assise, definito da diversi esponenti dal centrodestra come «una sentenza ideologica», la Procura di Roma ha presentato ricorso.


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