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domenica 29 giugno 2014

233) IL CENTENARIO DELLA NASCITA DI GIORGIO ALMIRANTE

Cent’anni fa nasceva Giorgio Almirante. La grandezza umana e politica del leader storico del Msi

di Franco Mugnai/ven 27 giugno 2014/08:01




La Fondazione Alleanza nazionale ricorda con commozione e partecipazione la figura di Giorgio Almirante nel centenario della nascita. È una ricorrenza di grande rilievo, non solo per la vicenda della destra italiana ma per la storia politica del nostro Paese della seconda metà del Novecento. L’evoluzione sociale e culturale dell’Italia, la caduta degli steccati e delle barriere ideologiche del passato, fanno sì che l’opera e l’insegnamento  di Almirante siano oggi riconosciuti dalla generalità dell’opinione pubblica (a parte, naturalmente, i residui settori della veterosinistra ancora  legata idealmente alla stagione dell’odio) come un’opera e un insegnamento appartenenti a tutti gli italiani. Almirante dunque e innanzitutto come grande italiano. Ed è proprio questo il leit motiv delle testimonianze, delle interviste, degli interventi pubblicati  nello speciale del Secolo d’Italia dedicato al grande leader della destra. La figura di Almirante emerge  nella sua grandezza umana e politica attraverso i ricordi di chi lo ha conosciuto e le analisi degli studiosi che si sono interessati alla storia e alla cultura del Msi.

Nel ricordare oggi il leader missino non si può  fare a meno di evidenziare la forza morale  e la coerenza ideale  con le quali seppe guidare la comunità umana e politica della destra in anni difficili ma anche esaltanti (pensiamo solo allo straordinario succeso nelle elezioni amministrative del 1971 e  in quelle politiche del 1972), anni in cui la sua figura si impose al rispetto e alla considerazione di tutti gli italiani (anche di molti avversari), nonostante i tentativi di criminalizzazione da parte dei settori più intolleranti e fanatici della politica italiana. In quella intensa e aspra stagione, Almirante riuscì a superare, nella società, quella conventio ad excludendum che era decretata contro il Msi dall’establishment politico italiano. Quel risultato fu possibile grazie alla forza del suo carisma, al messaggio di pacificazione nazionale espresso  dalla sua figura, alle sue notevoli doti di grande comunicatore. Si tratta di ideali e di esperienze che hanno caratterizzato una lunga fase della vita  italiana e che sono parte integrate del patrimonio ideale e politico della nazione. Ed è con questo spirito che la Fondazione Alleanza nazionale e il Secolo d’Italia rendono omaggio all’uomo che ha  intimamente  legato la sua vita a quella della destra italiana.



Il legame indissolubile con Trieste, dove «si è più italiani che altrove»

di Roberto Menia/ven 27 giugno 2014/08:08


In un’aula vergognosamente semivuota, il 17 dicembre 1976, la Camera dei Deputati discute la ratifica del Trattato di Osimo, una delle pagine più nere della recente storia repubblicana: l’Italia cede alla Jugoslavia la parte nordoccidentale dell’Istria ed ipotizza la creazione di una zona industriale mista  italoyugoslava sul Carso triestino, che poi non si realizzerà per la rivolta civile dell’intera città. Giorgio Almirante pronuncia una grande discorso, che è assieme un grido di denuncia e rivendicazione nazionale, ma anche un inno d’amore verso Trieste.

Trieste per la destra non è solo il “cavallo di battaglia” che anima passioni e ricordi, ma l’essenza viva, simbolica e presente della militanza politica: non una cosa da evocare e guardare da lontano ma la battaglia vissuta e  da vivere. C’è un passo, in quel discorso, che contiene storie e risvolti personali, e colpisce proprio per questo: «Poiché qualcuno in quest’aula – dice Almirante – si è permesso addirittura di contestare il nostro o il mio personale diritto a parlare di questo problemi, perché è stato detto da taluno –  che parla e si sbraccia troppo, e non sa come si sono svolte le cose in questo Parlamento e in questa Italia da trent’anni a questa parte – che anche a Trieste noi mandiamo i ragazzi allo sbaraglio, ebbene, io mi permetto sommessamente di ricordare a me stesso che, nelle tragiche giornate del novembre 1953, quando 6 nostri ragazzi furono assassinati dagli inglesi (in piazza non c’erano soltanto i ragazzi, ma c’erano anche gli anziani) io, che non ero allora segretario del partito, ero a Trieste; e mi permetto di raccontare, ai pochi colleghi presenti, che per entrare a Trieste dovevo servirmi allora di documenti falsi, perché facevo parte di una lista nera del comando anglo-americano di Trieste e scendevo a Monfalcone per ricevere il famoso passaporto rosa (per fortuna, la mia faccia allora non era nota come tristemente lo è diventata in seguito, e quindi mi potevo permettere di usare espedienti di questo genere). Andavo a Trieste clandestinamente, quanto al passaggio della frontiera; ma mi trovavo a Trieste in mezzo alla gente, con i nostri ragazzi….

Ecco Giorgio Almirante, l’uomo della prima linea, grande agitatore di anime e passioni che prima di tutto e intensamente viveva egli stesso. Il suo rapporto con Trieste era quasi carnale. Gli abbracci, quasi le carezze a quelli che, generazione dopo generazione, per lui erano sempre “i ragazzi di Trieste”, da Francesco Paglia, capo del Fuan caduto sotto il piombo inglese nel novembre 53 e che lui ricordava come “bersagliere volontario del btg. Mussolini”,  ultimo caduto della Rsi e primo del Msi ad Almerigo Grilz, capo del Fronte della Gioventù morto da giornalista in prima linea in Mozambico nel maggio 1987, in onore del quale  lascerà – come è strano il destino – il suo ultimo scritto, esattamente un anno dopo.

Per chi la ricorda, la foto “classica” di Giorgio Almirante nel suo studio al Partito a Roma, aveva alle spalle un labaro diviso in quattro con gli stemmi di Trieste, bordato col Tricolore e  dell’Istria, Fiume e  Dalmazia perdute listati a lutto. È un’immagine che parla da sola.

Tanti nel capoluogo giuliano portano ancora nel cassetto della memoria quella Piazza dell’Unità d’Italia piena di gente, che lui salutava con l’immancabile “Italiani di Trieste”, con affetto e commozione, con amore e con rabbia, come quando gli vietarono i comizi con provvedimenti polizieschi o gli impedirono di parlare agli esuli dell’Istria nel grande raduno del quarantennale dell’abbandono di Pola.

Per tanti altri è pure rimasto indelebile il ricordo di quelle memorabili sedute del Comune di Trieste, del quale volle essere consigliere per vivere in prima persona la rivolta della città contro il trattato di Osimo, contendendone la guida con l’arrembante “Melone” (la “Lista per Trieste”,prima grande esperienza civica italiana) che eleggerà sindaco Manlio Cecovini, scontrandosi duramente con i comunisti, i filoslavi, i democristiani “osimanti”, persino Pannella venuto pure lui in quella specie di polveriera al confine tra due mondi.

Ma c’era anche un altro Almirante, quello silenzioso e profondo, che chiedeva di andare in pellegrinaggio al mattino presto, alla Foiba di Basovizza (dove il monumento nazionale non esisteva ancora) per portare i fiori e dire una preghiera sopra quell’immenso «Calvario con il vertice sprofondato nelle viscere della terra» come ripeteva citando le parole del grande vescovo istriano di Trieste, Antonio Santin.

Lì, nel silenzio, per chi lo sa ascoltare, sentiva come noi perché a Trieste si è più italiani che altrove.


http://www.secoloditalia.it/

2 commenti:

  1. Trieste 60 anni fa. La fine dell’Inghilterra iniziò in quel giorno d’ottobre
    Marco Valle del 23 ottobre 2014
    Trieste. 26 ottobre 1954. Ore 12. Sotto una pioggia battente una folla enorme attende l’arrivo delle truppe italiane. Dopo nove anni, cinque mesi e dieci giorni d’occupazione anglo-americana, la città si ricongiunge alla madrepatria. Una festa di popolo. Vera, gioiosa, intensa. Ma mentre i triestini festeggiano l’entrata dei soldati con le stellette, — «le prime truppe vittoriose che l’Italia schierava dal 1943, senza tutela straniera, con le proprie uniformi e la propria bandiera al vento (1) » — dal molo Bersaglieri si stacca lentamente la fregata di Sua Maestà Britannica, l’HMS Whirlwind. Sulla plancia il generale Thomas Willoughy Winterton, l’ultimo comandante alleato del Territorio Libero di Trieste e principale responsabile della sanguinosa repressione anti italiana del novembre 1953.
    La manovra lascia di stucco i collaboratori del generale Edmondo De Renzi, rappresentante ufficiale del governo italiano, che attende il proconsole di Londra nell’adiacente piazza Unità per la cerimonia ufficiale del passaggio dei poteri. Pochi ordini secchi e il Whirlwind s’allontana dalla banchina puntando la prua verso il mare aperto. Uno sgarbo diplomatico, inutile quanto plateale, a cui tentano di rimediare con qualche imbarazzo i pochi funzionari alleati rimasti, adducendo la causa dell’affrettata partenza al “cattivo tempo”. La manovra però non sfugge ai triestini che sino all’inverosimile assiepano le rive; mentre la nave con il suo illustre passeggero si allontana nel golfo, dal lungomare si leva un boato assordante di fischi, urla e insulti.
    È l’addio di Trieste, nuovamente italiana, all’arcigno militare che dal 31 maggio 1951 governò con molta determinazione e poco stile il territorio giuliano. Al tempo stesso l’episodio segna — meglio d’ogni trattato — la conclusione agrodolce del ventennale confronto-scontro tra l’Impero Britannico e l’Italia.
    Quel giorno, nell’angolo più settentrionale del Mediterraneo, su quell’Adriatico amarissimo cantato da D’Annunzio, terminava così l’aspro contrasto politico, economico e — per un doloroso triennio, bellico — iniziato vent’anni prima per quella che allora sembrava una “piccola” questione coloniale tra un’Italia — prima troppo ambiziosa poi rovinosamente sconfitta, ma ancora non del tutto rassegnata —, e il declinante ma sempre potente Regno Unito.

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  2. Chi ha vinto, chi ha perduto il lungo duello? Nessuno dei duellanti. Certo. Ma vi è chi ha perso peggio, chi ha perso troppo. Chi ha perso tutto.
    La Storia, beffarda come sempre, ha smentito ogni previsione. La Gran Bretagna da più di trent’anni ha dovuto cedere ogni pretesa di primazia sul patrio Stivale, ha abbandonato l’antico Mare nostrum e — con l’eccezione delle basi cipriote — si è abbarbicata sulle colonne d’Ercole; nel frattempo è diventata sempre più piccina, si è trasformata — con un radicale cambiamento culturale, sociale che ha sconvolto assetti solidificati da secoli, impoverito la sua economia e intaccato le stesse basi demografiche — da superpotenza mondiale, “la Britannia felix”, in una nazione quasi “normale”.
    Un destino annunciato sin dal marzo 1941, a Placenta Bay, nelle fredde acque di Terranova. Rinunciando ad un’impossibile primizia mondiale, Winston Churchill definì con Roosevelt l’accordo “Affitti e Prestiti”, ovvero la svendita dell’edificio imperiale in cambio di armi, navi e petrolio. Da allora, abbandonati i possedimenti e gli investimenti oltremare, smantellate le basi e gli arsenali, ammainate tutte le bandiere ad oriente di Gibilterra, la storia della Gran Bretagna è quella — talvolta dignitosa, spesso controversa, sempre dolorosa —, di una lenta ritirata. Un tramonto interrotto da pochi lampi — la Malesia, il Borneo, la guerra delle Faklands/Malvinas —, frettolosi abbandoni — la Palestina, Il Raj indiano, Suez, i domini africani, il Golfo Persico, Aden —, e tante rese. Da Trieste — una delle più significative e maldigerite — sino all’ultima, quella definitiva, che chiuse la secolare campagna britannica contro ogni tipo d’egemonia continentale: l’unificazione tedesca.
    Sulla scena mondiale ai pragmatici eredi di Enrico VIII, della grande Elisabetta, di Cromwell rimane un ruolo prestigioso quanto minoritario, quello di “junior patner” degli USA, una sorta di “vigile scolta” del colosso americano in terra d’Europa. Non è detto che ne siano dispiaciuti.

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