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sabato 25 febbraio 2012

125) CORI DA STADIO

DAI CORI DA STADIO CAMPANILISTICI, TENDENTI AD INGIURIARE LE TIFOSERIE E I GIOCATORI AVVERSARI CON GLI APPELLATIVI “CONTADINI” O “PASTORI” (UN MONDO RURALE CUI E’ STATA DEDITA GRAN PARTE DELLA POPOLAZIONE PER SECOLI), DELLE NUOVE PROPOSTE PER RIVALUTARE QUEGLI ANTICHI MESTIERI, OGGI DISPREZZATI E SCHIFATI DA TUTTI NOI, PER FAR FRONTE ALLA DISOCCUPAZIONE, IN PARTE CAUSATA DALL’ELEVATA SCOLARIZZAZIONE.


                                    
Cori da stadio e campanilismi
In tutti gli stadi i tifosi rivali  si sfottono tra loro con parole poche ortodosse. Domenica scorsa nell’incontro di Seconda Categoria tra Cori e Giulianello le due tifoserie se le sono dette di tutti i colori, non solo a voce, anche con striscioni. Le classiche parole per offendere in tutti gli stadi sono come al solito: contadini, pecorari, parlate italiano, napoletani, sardi, terroni. È bene ricordare che fino a qualche decennio fa la maggioranza della popolazione di Cori e Giulianello era contadina, tutta l’Italia era una nazione agricola e povera, tranne il triangolo industriale Milano – Torino – Genova. I classici motivi (contadini e di parlate) di irrisione a cui siamo soggetti noi dei monti, quando ci rechiamo nella pianura bonificata: nata appositamente per l’agricoltura, con i poderi e le case coloniche assegnate dall’Opera Nazionale Combattenti ai coloni, provenienti in maggioranza dal Veneto, il quale era la nazione più povera d’Italia. Oggi quella regione è la più ricca e produttiva del paese, facendosi da sola. L’origine della propria terra diventa motivo di scherno, particolarmente l’origine napoletana e sarda. La Sardegna un tempo era l’incubo dei trasferimenti, oggi le sue coste sono divenute esclusive nel periodo estivo, è una meta ambita, nonostante sia poco sviluppata e sia motivo di offesa “pastore sardo”. L’Italia paga secoli di divisioni e ancora non si uniforma completamente nel sentimento nazionale, tranne quando ci sono i mondiali di calcio; bisogna far in modo di superare i molti regionalismi e sentirsi tutti fratelli dal nord al sud alle isole, unificando anche il linguaggio: un italiano pulito, privo di cadenze e termini stranieri (qualche settimana fa ho inserito i filmati della “Battaglia di Giarabub”,  la canzone e il film: guardate che modo d'esprimersi pulito e un giovanissimo Alberto Sordi stenta a riconoscersi per come parla). Per carità, ho il massimo rispetto per coloro che in passato non hanno avuto la possibilità di istruirsi e di evolversi, così da non saper parlare italiano, ma oggi i tempi sono cambiati; non più di tanto se si guarda la realtà: non tutti i laureati sono padroni della sintassi, del lessico e della grammatica, in più la televisione ci ha abituato ai peggiori strafalcioni, ad anglicismi e al romano soprattutto. Un tempo i grandi letterati andavano a risciacquare le loro opere a Firenze, nell’Arno, culla della lingua italiana, mentre oggi i personaggi dello spettacolo sciacquano le loro parole nel Tevere.

Scolarizzazione e disoccupazione
La scuola dovrebbe servire di più per queste cose: tantissimi vi passano, ma solo pochi riescono a non dimenticare ciò che si apprende e spesso anche se non si apprende si va avanti lo stesso. Un fattore negativo dell’eccessiva scolarizzazione è la disoccupazione. Anni addietro i pochi privilegiati che riuscivano a diplomarsi, sia delle famiglie benestanti, sia di quelle povere che con dei sacrifici permettevano a qualche loro figlio di studiare, trovavano la sicura occupazione nel ramo in cui si diplomavano, perché erano in pochi a diplomarsi. Oggi sono milioni e milioni a diplomarsi, anche i laureati sono una marea, e costoro stentano ad inserirsi nel mondo lavorativo, proprio perché c’è troppa concorrenza. Raramente andranno a fare i braccianti agricoli o i manovali, a meno che non hanno disperato bisogno di denaro, si chiedono: "perché dobbiamo fare quei mestieri? Allora che abbiamo studiato a fare?"  Uno che diventa geometra e ragioniere difficilmente svolgerà quei ruoli, se non proseguirà gli studi all’università. Dovrà accontentarsi dei lavori precari nelle fabbriche (se riuscirà a trovarli, sempre per il solito discorso della troppa concorrenza), dove spesso si preferiscono i diplomati in perito industriale o in scuole professionali; a pensare che prima con la licenza media ed elementare nelle industrie si lavorava per tutta la vita e non chiudevano, anzi erano in espansione. Quando si terminano le scuole medie, al momento della scelta della scuola superiore, coloro che vorrebbero scegliere gli istituti industriali o professionali e sono portati per lo studio si tenta di dissuaderli, spesso viene loro detto: “ma che scuole andate a fare? Le scuole dei somari?” Poi se  prendi il diploma liceale, di geometra, di ragioniere e per un motivo o per un altro non prosegui gli studi o abbandoni l’università rimani fregato, a meno che non disponi del classico “calcio nel culo” benevolo, che ti verrà rifilato. Un altro motivo che portano tutti a diplomarsi nello stesso settore è la dislocazione delle scuole nel territorio: poniamo il caso che un domani nel nostro paese metteranno un istituto per geometri, state sicuri che i nostri giovani paesani usciranno quasi tutti geometri, per evitare di prendere tutti i giorni la corriera per spostarsi a Cisterna, a Latina e a Velletri. Laurearsi delle volte non significa trovare lavoro nella qualifica in cui ci si laurea: con la laurea in lettere e filosofia non ci fai nulla, perché è una facoltà facile in cui tutti vorrebbero iscriversi per raggiungere l’ambito “pezzo di carta”, mentre con l’ingegneria, anche se è dura e bisogna essere portati per lo studio, si troverà facilmente un occupazione. Sono tempi duri per il lavoro: un diploma negli anni d’oro dello sviluppo economico valeva di più di una laurea di oggi.

Idee per il futuro
Per il futuro proporrei l’accesso a numero chiuso nelle scuole superiori, in base alla domanda di personale lavorativo e calcolando quanti si ritireranno dal lavoro, sia nel pubblico impiego, sia nel privato. Di quanti geometri ci sarà bisogno per il futuro? Di quanti periti industriali? Di quanti contabili o ragionieri? Di quanta manodopera industriale? Di quanti insegnanti di lettere? Stesso ragionamento per tutti gli altri settori. A coloro tra geometri, periti, ragionieri che riusciranno a diplomarsi con i voti più alti sarà riservato l’accesso nelle facoltà di architettura, di ingegneria e di economia, così da divenire architetti, ingegneri e commercialisti, i loro superiori. Quelli che non riusciranno ad entrare negli istituti superiori, potranno frequentare per qualche anno le scuole di avviamento professionali, che insegneranno un mestiere manovale e daranno un livello culturale di base. A tutti piacerebbe divenire delle personalità, dei manager, dei direttori, firmare dei documenti influenti con le sigle Prof., Dott., Ing., ma non tutti possono, vi riescono solo i più bravi e i meno bravi raccomandati. C’è bisogno anche di contadini, di allevatori, di artigiani, di fabbri, di muratori, di fornai: non è umiliante e mortificante sporcarsi le mani, come non lo è stato per secoli per gli antenati della maggior parte di noi. Con le evoluzioni tecnologiche oggi divengono meno faticosi quei mestieri e se uno ci sa fare riesce anche a fare fortuna: basta vedere le ville e le macchine che si fanno al Boschetto e dintorni coloro che dispongono di trattori e altri macchinari, lavorando la terra propria e per conto terzi. Per questo motivo e per il fatto che noi mangiamo e beviamo i prodotti della terra e degli allevamenti non ritengo offensivi e disprezzanti i termini “contadini” e “pastori”, che per il domani saranno sempre più istruiti ed evoluti.

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